Translate

14 giugno 2016

SE C'E' UN INFERNO PER I BAMBINI SI CHIAMA UGANDA

Nel Paese dell’Africa centrale sono migliaia i bambini abbandonati per strada, denutriti e senza futuro. Picchiati e derubati perfino dalla polizia. E c’è anche chi viene assassinato.

«Stavo dormendo. Arrivarono quattro poliziotti e cominciarono a picchiarmi. Mi picchiarono così forte sulle caviglie, sulle ginocchia, sui gomiti, tanto che non riuscivo a muovermi. Picchiarono anche i miei amici che dormivano accanto a me. Poi un poliziotto disse: “Chi ha dei soldi da darci, così vi lasciamo in pace?”. Moses aveva cinquecento scellini (meno di un quarto di dollaro statunitense). Il poliziotto li prese. Questo accadeva sempre durante la notte». Stephen, quattordici anni, da un anno nelle strade di Masaka, Uganda.

Stephen a tredici anni rimane orfano di padre. Il fratello maggiore non vuole prendersene cura e lo caccia di casa; così inizia un lungo viaggio in cerca della mamma che vive altrove. Stephen si perde nelle strade di una città troppo grande per lui e decide di rivolgersi a chi dovrebbe proteggerlo: la polizia. Sbagliando. Gli agenti lo ignorano e Stephen finisce da solo, in mezzo alla strada. Da allora, quella polizia che avrebbe dovuto rappresentare la sua salvezza, diventa il suo peggiore incubo: ne subisce pestaggi, furti ed ogni genere di angheria, insieme ai suoi piccoli compagni di sventura, pressoché ogni notte.

In Uganda, nessuno sa quante migliaia di bambini vivano per strada; le autorità si limitano ad affermarne il continuo incremento. Una crescita facile da intuire se si pensa come l’Uganda sia uno degli stati con il maggior numero di bimbi al mondo: il cinquantasei per cento della popolazione ha meno di diciotto anni, il cinquantanove per cento dei quali vive al di sotto della linea di povertà. Si tratta di tremilioni e settecentomila bambini senza casa, cibo, acqua potabile, tantomeno istruzione o assistenza sanitaria, di cui gran parte probabilmente già vive in mezzo ad una strada, alla mercé del più forte.

Human Rights Watch dipinge il drammatico ritratto dei ragazzini di strada di Kampala e di altri grandi sei centri urbani dell’Uganda nel suo recente rapporto “Where Do You Want Us To Go?” (luglio 2014), dopo averne intervistato ben centotrenta. Storie fatte di povertà, violenza, discriminazione, abusi, sfruttamenti d’ogni genere, ad opera di bambini più grandi, di senzatetto adulti ma anche delle forze di polizia che li considerano un “problema” da risolvere, li accusano ingiustamente di crimini che non hanno commesso e, come nel caso di Stephen, li picchiano e li derubano.

Similmente a quanto abbiamo visto accadere di recente in Brasile con i Mondiali, in occasione di eventi particolari, di conferenze internazionali o di visite ufficiali il governo di Kampala ordina alle forze di polizia di ripulire le strade. Centinaia di bambini vengono così arrestati e detenuti illegalmente nelle stazioni di polizia per diversi giorni, a volte settimane, in promiscuità con adulti criminali, o rinchiusi nel Kampiringisa National Rehabilitation Center dove vivono in uno stato deplorevole, come denunciano gli stessi bambini e i rapporti delle ong.

Non mancano gli omicidi, purtroppo, come quelli dei tre bimbi massacrati a Lira tra luglio e settembre 2013. Le violenze sessuali sono all’ordine del giorno, anche solo per poter entrare a far parte di una banda o per poter stare in un determinato punto della strada. Non solo gli adulti ma anche gli stessi bambini più grandi abusano dei più piccoli, costringendoli ad assumere droghe o a prendere parte a furti e ad altri crimini. Alcuni di questi ragazzini si prostituiscono per sopravvivere. Raramente denunce vengono sporte alle forze di polizia, proprio per il timore di incorrere in ulteriori violenze e punizioni.

Il National Strategic Programme Plan of Interventions for Orphans and Other Vulnerable Children stilato dal governo ugandese si è mostrato del tutto inefficace nel contrastare il fenomeno dei bimbi di strada, poiché non incide minimamente sul sistema socioeconomico e culturale che ha portato a questi drammatici risvolti. Non intervenendo ad esempio nei confronti delle forze di polizia, proibendo violenze ed arresti arbitrari, o in materia di educazione primaria, assicurando a tutti l’istruzione di base, o ancora nel contrastare gli abusi domestici a cui spesso questi minori vengono esposti, il numero dei bimbi di strada non potrà che continuare a crescere. La malagestione delle risorse pubbliche e la corruzione dilagante non sono di certo d’aiuto per un miglioramento della situazione nel breve periodo.

Supportare le ong che si prendono cura di questi bambini è qualcosa che possiamo fare tutti per salvarli dalla strada, ad esempio attraverso l’adozione a distanza. Ma possiamo muoverci anche perché gli investitori italiani che cercano fortuna nell’energia (questo Paese è ricchissimo di petrolio, sul quale hanno già messo le mani Total, Cnooc e Tullow), nella filiera agroalimentare o nei settori dei materiali per la costruzione, delle apparecchiature di telecomunicazione e di generazione e distribuzione elettrica o del turismo (l’Uganda, terra della Rift Valley e dei Gradi Laghi, venne definita da Winston Churchill “la perla d’Africa”)… chiedano al governo di intervenire in favore dei bambini di strada. A tal proposito, chi volesse sollecitare l’ambasciata italiana in Uganda ed il “business club Italia” da essa creato per raggruppare gli imprenditori italiani presenti nel paese, può contattare l’ambasciatore (segreteria.kampala@esteri.it); chissà che si prodighi, insieme ai nostri connazionali in trasferta d’affari, non tanto per importare quattrini quanto per esportare umanità.

Alessandra Contigiani
popoffquotidiano.it
24.7.2014



01 maggio 2016

UN RAGAZZINO IN OGNI CLASSE FA DA "BADANTE" AD UN PARENTE

In Italia 169mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni (pari al 2,8% della popolazione di questa fascia d’età) si prendono regolarmente cura di adulti o anziani fragili. Si tratta di figli, fratelli, nipoti di persone con disabilità fisiche o mentali, da malattie terminali o croniche o da dipendenze. Secondo uno studio britannico ce n’è almeno uno per classe e l’unica indagine esistente in Italia, realizzata pochi mesi fa in un istituto professionale di Carpi, ha rilevato che ben il 21,9% degli studenti presta cure a un familiare adulto con un livello di intensità “molto alto”. Sono i giovani caregivers, una fetta ancora più invisibile di quei 3 milioni e 300mila italiani che assistono regolarmente familiari adulti bisognosi di cure - malati, disabili o anziani – ragazzi che esistono anche se si guardano bene dal raccontare la loro quotidianità, per riservatezza, imbarazzo, vergogna ma anche perché la letteratura internazionale racconta che spesso loro sono più di altri vittime del bullismo.

[...] quei ragazzi, un numero sorprendente e certamente sottostimato, perché esistono anche bambini più piccoli che nel silenzio delle loro case, portano quotidianamente il peso di una responsabilità da adulti, più tutti quelli che assistono fratelli con disabilità. «La nostra attenzione ai giovani caregivers nasce dall’esperienza», spiega Licia Boccaletti, project manager della cooperativa Anziani e non solo, che dal 2004 si occupa di caregiver familiari e che dal 2011 realizza annualmente i Caregiver day.

Entrando nelle famiglie, conoscendole, scoprono che in molte «c’erano ragazzini o giovani adulti con un ruolo di cura. Si tratta spesso di nuclei monogenitoriali, quindi non ci sono alternative, il ragazzo deve prendersi cura di un genitore con una malattia cronica o psichiatrica, oppure famiglie dove c’è un componente disabile – magari il fratello – e in cui i genitori non riescono a coprire completamente il fabbisogno assistenziale. Spesso accade che per motivi economici non ci si può permettere un aiuto a pagamento, così è l’altro figlio che supporta i genitori: questa fra le due è ovviamente la situazione più semplice perché il carico assistenziale è ripartito, le situazioni più difficili sono quelle in cui c’è solo il ragazzo con un genitore», continua Licia Boccaletti.
Se la famiglia è di origine straniera, le difficoltà dei caregiver si accentuano ulteriormente: «fra gli stranieri c’è il doppio della possibilità di avere giovani caregiver, perché diversamente da ciò che si crede questi spesso sono nuclei familiari molto piccoli, senza parenti e reti sociali, che fanno fatica a trovare supporto fra i connazionali. Ne abbiamo intervistati alcuni, emerge soprattutto il fatto che ai giovani stranieri il loro ruolo di caregiver sembra essere più normale, non gli appare così strano» (qui il sito del progetto con i caregiver familiari di origine straniera realizzato dalla cooperativa).

Studi e numeri in Italia non esistono, se non quel 169mila indicato dall’Istat. È proprio Anziani e non solo ad aver scritto un primo report - "I giovani con responsabilità di cura in Italia", nell’ambito del progetto europeo Care2Work, e pensato un progetto pilota, primo in Italia, dedicato a questi ragazzi, in atto all’Istituto Nazareno di Carpi. Nei mesi scorsi 128 allievi del CFP hanno risposto a un questionario per “misurare” il livello di impegno di cura domestica richiesto a loro: 32 hanno un impegno “moderato”, 18 un livello “elevato” e 28 – ben il 21,9% - un livello “molto alto” di cure prestate. «Per misurare il carico di cura è stata utilizzata una scala internazionale che chiede, rispetto ad una serie di attività, di dire quanto frequentemente sono state svolte nel mese precedente e in base a queste risposte dà un punteggio», spiega Boccaletti. Alcuni esempi? Assistere un familiare nell’assumere farmaci, accompagnare un familiare in bagno, occuparsi dell’igiene di una persona…. «Dopo il questionario, stiamo lavorando con gli insegnanti e fra aprile e maggio entreremo in classe, parlando a tutti, con la speranza che poi i ragazzi che vivono questa situazione si “palesino” chiedendo un aiuto individuale».

L’impatto che il ruolo di caregiver ha su un ragazzo è molto elevato, molto più di quello che può essere su un adulto. È facile immaginare come la stanchezza possa avere conseguenze sul rendimento scolastico, che poi ha conseguenze sul futuro, in una spirale negativa: magari il giovane caregiver sceglierà per le superiori una scuola che richieda un impegno minore, oppure dopo le superiori sceglierà di andare a lavorare e rinuncerà all’università, oppure sceglierà una facoltà che non lo obblighi ad allontanarsi da casa… In più c’è il piano emotivo, lo stress, la difficoltà nelle relazioni: il tempo dedicato alla cura viene sottratto a quello dedicato allo svago e al tempo libero, per cui i giovani caregiver sono spesso costretti a rinunciare alle attività a cui si dedicano normalmente i coetanei, come gite, uscite, attività sportive…

«Sono situazioni complesse, che però non hanno solo aspetti negativi», sottolinea Boccaletti: per questo «è importante riconoscere e valorizzare le competenze trasversali che questi ragazzi sviluppano, per sostenerli nel percorso di inserimento lavorativo. Stiamo sperimentando laboratori in diversi Paesi per validare le competenze dei giovani e anche qui in Emilia Romagna, dove da due anni esiste la prima ed al momento unica legge regionale sui caregiver familiari, è previsto il riconoscimento dell’esperienza di cura come credito formativo, un po’ come già accade per il volontariato o per le attività sportive. L’assessore regionale si è impegnato a rendere applicabile questo riconoscimento anche nei contesti universitari».

Sara De Carli
www.vita.it

08 aprile 2016

LE BRAVE RAGAZZE NON PROTESTANO

In Sudan le donne vivono già in un contesto fortemente discriminatorio. Quelle che inoltre osano osteggiare il potere del regime El-Bashir pretendendo diritti, come le attiviste o le manifestanti, subiscono abusi gravissimi ed orribili. Un rapporto di Human Rights Watch ne ha raccolto le testimonianze.

  
  
*Martedì 5 aprile si è concluso a Banjul, in Gambia, il Forum delle organizzazioni non governative per promuovere e salvaguardare i diritti umani in Africa. In questa occasione si è parlato della discriminazione femminile nel continente ed è emerso che pur esistendo una buona legislazione in proposito, in Africa la donna è ancora fortemente discriminata. 
In Sudan le donne che si oppongono al regime islamista di Khartoum rischiano di essere vittime di minacce ed abusi forse più e sicuramente in modo diverso degli oppositori uomini. Lo documenta un recentissimo rapporto di Human Rights Watch (Hrw) dal titolo, “Good Girls Don’t Protest”, e dal sottotitolo altrettanto esplicito “Repression and Abuse of Women Human Rights Defenders, Activists, and Protesters in Sudan” (Repressione e abusi di donne che difendono i diritti umani, attiviste, e manifestanti in Sudan).
Le ricercatrici hanno intervistato 85 donne tra il novembre del 2014 e il gennaio di quest’anno. Erano attiviste di diverse organizzazioni della società civile e per la difesa dei diritti umani e hanno documentato attraverso le loro testimonianze gli abusi gravissimi, fino allo stupro di gruppo, a cui sono state sottoposte da parte delle forze di polizia, ed in particolare del servizio per l’intelligence e della sicurezza nazionale (Niss). Molte sono state intervistate a Khartoum o nella città gemella di Omdurman, ma anche in altre aree del paese, come il Darfur e anche all’estero.

Donna inferiore per legge
Questi abusi riflettono la condizione subordinata della donna nella società sudanese da quando il regime islamista del Fronte nazionale islamico, nominatosi poi Partito del congresso nazionale (Ncp) e ancora al governo, ha preso il potere nel 1989. Da allora la legge ha istituzionalizzato la subordinazione delle donne. In particolare introducendo il crimine di offesa alla moralità pubblica in forza del quale sono state obbligate ad adottare un certo modo di vestire, hanno avuto limitazioni nel partecipare alla vita pubblica, possono subire pene degradanti e contrarie alle norme internazionali, quali la lapidazione e l’uso della frusta. Il rapporto fa luce anche sulla generale impunità di chi abusa delle donne, anche in modo gravissimo, come la violenza sessuale di gruppo, e perfino quella perpetrata nelle stazioni di polizia.

Testimonianze orribili
È il caso, ad esempio, di Safiya Ishaq, artista e attivista del gruppo di opposizione giovanile Girifna, organizzatore di diversi momenti di protesta a partire dal 2011. Safiya partecipò alle dimostrazioni del 30 gennaio 2011. Fu presa da due uomini in abiti civili e spinta su una macchina mentre faceva acquisti due settimane dopo. Fu portata in un ufficio del Niss dove fu picchiata, presa a calci, insultata con offese sessiste e interrogata da diversi uomini sulla sue attività. Durante l’interrogatorio venne denudata e svenne. Quando si riprese due uomini la stavano tenendo mentre un terzo la violentava; la violentarono a turno tutti e tre per diverse ore. Poi la rilasciarono senza accuse precise, minacciandola di violentarla ancora se avesse continuato a militare per Girifna. 
Simile esperienza ha raccontato Samia, che ha preferito usare uno pseudonimo, attivista di un partito di opposizione. È stata fermata il 2 aprile dell’anno scorso, pochi giorni prima delle elezioni, mentre usciva di casa per distribuire dei volantini. Tre uomini l’hanno trascinata su una macchina, l’hanno portata in un luogo isolato, l’hanno legata ad un albero e insultata: «Voi donne attiviste e membri di partito siete tutte sharmutte» (cioè prostitute). Infine l’hanno violentata a turno e minacciata di rappresaglie se avesse raccontato l’episodio a qualcuno. Fu poi fermata di nuovo il 25 aprile e minacciata in modo ancor più pesante. Durante l’intervista con la ricercatrice di Hrw, in maggio, faceva fatica a parlare in modo coerente ed era chiaramente traumatizzata.

Indifese
Molto spesso le donne sudanesi non godono di forme adeguate di protezione. Soprattutto chi è vittima di violenza spesso non denuncia l’abuso subito. Molte vengono scoraggiate dalle famiglie per evitare di aggravare la loro già difficile condizione con l’isolamento sociale. Molte altre vengono disincentivate dalle autorità competenti stesse che, neanche troppo velatamente, minacciano conseguenze se non si tiene la bocca chiusa.
È ancora il caso di Safiya, che ebbe il coraggio di tentare di denunciare le violenze subite. Ma alla stazione di polizia le fu detto che il suo racconto non poteva essere veritiero perché le forze di sicurezza non si macchiano di simili colpe. Le fu infine caldamente consigliato di non proseguire con l’azione legale, perché avrebbe macchiato indelebilmente il nome della sua famiglia. Dunque è chiaro che nel Sudan del governo islamista di Omar El-Bashir la violenza è perpetrata impunemente come strumento per isolare socialmente con un marchio d’infamia le donne violate e renderle inoffensive.
Safyia, sotto la pressione del trauma subito e della paura di nuove ritorsioni lasciò il paese nel marzo del 2011 e vive ora in esilio in Francia. Anche Samia è ora in cura all’estero. Come loro, molte altre donne traumatizzate e minacciate hanno preferito iniziare una nuova vita altrove.

Consuetudine
Il rapporto sottolinea come questo genere di abusi siano diventati frequenti soprattutto a partire dal 2011, dopo la secessione del Sud Sudan. Nel paese allora si ebbe un irrigidimento nell’applicazione delle norme derivate dalla legge islamica mentre aumentavano le manifestazioni pubbliche di protesta a causa della crisi economica e della cresciuta instabilità, con l’inizio di due nuovi conflitti, nel Sud Kordofan e nel Blue Nile. Le donne parteciparono numerose e furono particolarmente attive, suscitando il tipo di reazione sopra descritto.

Il 5 febbraio di quest’anno, Hrw ha scritto una lettera al governo sudanese informandolo di quando emerso dalla ricerca e richiedendo informazioni su quanto stava succedendo nel paese riguardo agli abusi verso attiviste e militanti. Al momento della pubblicazione del rapporto non si era avuta ancora nessuna risposta.

Bianca Saini
www.nigrizia.it

07 aprile 2016

I BIMBI DI NAIROBI MERITANO UNA CHANCE

La missione di Claudia all'orfanotrofio di Nairobi


Aveva 18 anni Claudia quando, dopo essersi diplomata, decise di partite in Kenya per un’esperienza di volontariato. Sarebbe stata fuori casa solo per un mese, in attesa di cominciare l’Università. Non sapeva bene di cosa si sarebbe occupata e non aveva troppe aspettative. Quello che non aveva considerato, prima di fare le valigie, è quanto quell’esperienza l’avrebbe segnata.

In quell’estate Claudia lavorò in un orfanotrofio, in una baraccopoli a un’ora da Nairobi. La struttura ospitava 60 bambini di età compresa fra zero e diciotto anni, costretti a dormire anche in quattro nello stesso letto per la mancanza di spazio. La direttrice, ovvero la donna che aveva fondato l’orfanotrofio diverso tempo prima, era aiutata nella gestione solo da sua figlia. Claudia fu da subito un’aiutante preziosa. La prima cosa della quale si rese conto fu che i bambini non mangiavano abbastanza. 
«L’unica fonte di sostentamento per l’orfanotrofio erano sporadiche donazioni - ricorda la ragazza - quindi i bambini erano spesso costretti a saltare i pasti per mancanza di cibo. La cosa mi toccò nel profondo. Quando in occidente si parla di povertà o di situazioni difficili raramente si fa riferimento al cibo, mancano sempre altri beni perché nella nostra società almeno il poter mangiare regolarmente è abbastanza scontato», dice. 
Avendo toccato con mano la durezza di quella vita, destinata a incolpevoli bambini e ragazzi poco più giovani di lei, una volta tornata in Italia, decise di lanciare una raccolta fondi per aiutarli.

Nel settembre 2012 Claudia Puddu ha fondato l’associazione Onlus Give Him a Chance, della quale è presidentessa. 
«Attualmente riusciamo a mandare all’orfanotrofio circa 1000 euro al mese, grazie alla generosità dei nostri 54 soci e sostenitori. Con delle piccole rinunce è possibile cambiare radicalmente la vita di altre persone e credo che vedere i risultati sia davvero gratificante». L’associazione di Claudia mostra costantemente i progressi nella vita della piccola comunità. Grazie al contributo di Give Him a Chance, gli ospiti dell’orfanotrofio possono andare a scuola, «qualcuno è riuscito anche a farsi ammettere all’Università», dice con una punta di orgoglio la giovane studentessa cagliaritana.

La gestione dei fondi è trasparente e precisa. «A differenza di quanto succede in altri casi, noi abbiamo un filo diretto con l’orfanotrofio, non ci sono intermediari e questo ci permette di sapere precisamente in che modo viene speso ogni singolo euro che inviamo. I bambini conoscono alcuni membri della nostra associazione e sono per questo molto più motivati nello studio, è bello per loro che giungono da situazioni veramente difficili in alcuni casi sapere che qualcuno ha creduto in loro». Nei progetti dell’associazione c’è quello di comprare, a breve, una libreria per l’orfanotrofio e anche un pulmino per permettere ai bambini di raggiungere più facilmente la scuola. «Sono felice di aver trovato tante persone disposte a sposare la causa e lavorare con il cuore, gratuitamente nel tempo libero. Per adottare un bambino a distanza bastano 20 euro al mese, ma abbiamo tanti sostenitori che con un contributo di 15 o 30 euro all’anno ci permettono di fare tanto. In quattro anni ho visto l’orfanotrofio cambiare volto, ma c’è ancora tanta strada da fare».

Martina Marras
www.ladonnasarda.it

31 marzo 2016

LA STORIA DEL BAMBINO "STREGONE" SALVATO DA UNA VOLONTARIA IN NIGERIA

La famiglia lo aveva abbandonato sulla strada denutrito e senza vestiti indosso. Per otto mesi Hope, 2 anni, ha vagato nel nulla.

Le immagini del volto emaciato e del corpo denutrito del bambino nigeriano di due anni, malfermo sulle sue gambe, che si avvicina a una donna con in mano una bottiglia d'acqua per poter bere, hanno fatto il giro del mondo. 
Quel bimbo ora ha un nome, Hope, speranza appunto. Non lo ha scelto casualmente Anja Ringgren Lovén, la cooperante danese che ha scattato quelle foto, nel villaggio di Uyo, nel sudest della Nigeria, e che ha salvato quel bambino nigeriano abbandonato dalla famiglia perché creduto uno stregone. 
Hope ha trascorso otto mesi della sua breve vita sulla strada, denutrito e quasi in fin di vita. Mangiava ciò che capitava, ha raccontato la volontaria che coopera nel continente africano con l'organizzazione non governativa African children's aid education and development foundation. 
"Migliaia di bambini vengono accusati di essere stregoni o streghe e li abbiamo visti torturati, morti o spaventati" ha scritto su Facebook, Anja Ringgren Lovén. "Queste immagini mostrano il motivo per cui mi batto. Perché ho venduto tutto quello che possiedo". 

Oggi Hope appare così, dopo le cure ricevute dallo staff medico ospedaliero, dove ha ricevuto un trattamento per eradicare i vermi che lo avevano attaccato. 
Il denaro raccolto, ha precisato Lovén, permetterà di dare a tutti quei bambini abbandonati un futuro, ma soprattutto una speranza di vita. I finanziamenti saranno infatti impiegati anche per edificare una sorta di clinica ospedale, salvando in questo modo moltissimi bambini abbandonati dalle loro famiglie. 



www.tpi.it

20 marzo 2016

UN VIOLINO NELLA METROPOLITANA


 La storia di Joshua Bell e la gente indaffarata

Era un freddo mattino nel gennaio 2007. Un uomo nella stazione della metropolitana di Washington DC iniziò a suonare il suo violino. Suonò pezzi di Bach e Schubert per circa 43 minuti. Durante questo lasso di tempo, poiché era l’ora di punta, passarono oltre 1.000 persone per la stazione, la maggior parte di loro dirette al lavoro.
Passarono tre minuti e un uomo di mezza età notò che c’era un musicista che suonava; rallentò il passo, si fermò per alcuni secondi, e poi si affrettò per riprendere il tempo perso. Un minuto dopo il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna lanciò il denaro nella cassettina e, senza neanche fermarsi, continuò a camminare.
Pochi minuti dopo qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma poi guardò l’orologio e ricominciò a camminare. Chiaramente era in ritardo per il lavoro.
Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni; mentre la madre insistette per proseguire, lui si fermò a ascoltare il violinista. Portato via di forza il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da altri bambini: tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 43 minuti che il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Alla fine racimolò 32 dollari. Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.

Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei musicisti più talentuosi del mondo. Aveva appena eseguito la Ciaccona, dalla Partita n.2 in Re Minore di Johann Sebastian Bach, non solo uno dei più grandi brani di musica mai scritti, ma una delle più grandi opere compiute dalla storia dell’uomo. E l’aveva suonata con un violino Stradivari del 1713 del valore di 4 milioni di dollari. Alcuni giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston, dove i biglietti costavano dai 100 ai 200 dollari l’uno.

Questa è una storia vera. Joshua Bell era in incognito nella stazione della metro, il tutto organizzato dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone.
L’esperimento consisteva nel capire se in un ambiente comune ad un’ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?

Una delle possibili conclusioni di questa esperienza potrebbe essere: se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?

www.matteogracis.it

17 marzo 2016

SIAMO SEMPRE LO STRANIERO DI QUALCUN ALTRO (Tahar Ben Jelloun)

Visual Artist : Dina Bova, Tel Aviv, Israel
La Storia: Il razzista al piano di sopra

C’era una volta un padre, una madre e un bimbo.
I tre erano molto felici, quel giorno.
Il perché lo dico alla fine.
Questa famiglia abitava in un palazzo di ben otto piani.
I nostri avevano la sfortuna di abitare al piano terra.
E, soprattutto, quella di essere nati Rom.
Ma non quella di essere Rom in generale.
La sventura era di essere nati Rom e abitare al pianterreno di quel palazzo.
Una sera, il bimbo aveva chiesto al padre perché i vicini del piano di sopra li trattavano sempre male.
“Perché dicono che siamo sporchi e che puzziamo”, aveva risposto il genitore.
“Ma bisogna capirli, anche loro hanno dei problemi…” aveva aggiunto poi.
“Quali?” aveva domandato il piccolo.
“Vedi, loro sono extracomunitari e i vicini che abitano al piano sopra il loro li accusano di essere nel palazzo solo per rubare e vendere droga.”
“E chi sono questi qua?”
“Sono persone come noi e anche loro non se la passano così bene…”
“Perché?”
“Perché sono Palestinesi e i signori che vivono al piano successivo, gli Israeliani, sostengono che il loro intento sia quello di occupare la loro casa…”
“Davvero?”
“Certo, ma non pensare che gli Israeliani dormano sonni tranquilli. Al piano sopra il loro abitano gli Anti Sionisti, che considerano i primi come gente avida e attaccata solo ai soldi.”
“Che brutto palazzo, papà…”
“Eh, ma non hai sentito ancora nulla. Sopra gli Anti Sionisti, al sesto piano, ci sono i Padani.”
“Chi sono?”
“Sono gente del nord Italia.”
“Sono Italiani, allora?”
“No, loro si definiscono Padani e ritengono inferiori tutti quelli che abitano di sotto, nessuno escluso.”
“Chi abita sopra di loro?”
“Questa è bella, figlio mio: gli Svizzeri, ma non Svizzeri qualunque, Svizzeri italiani. E gli Svizzeri Italiani ce l’hanno con i Padani perché a loro avviso gli rubano il lavoro.”
“Caspita. E chi vive all’ultimo piano?”
“Nessuno lo sa, caro. E, vista la natura del condominio, chi ha il coraggio di andare a bussare a quella porta?”
Come avrete capito, la vita in un tale palazzo per la famiglia dei Rom non era affatto facile, ma alla fine una luce apparve in fondo al tunnel.
Per loro fu un gran giorno, quello.
I tre lo chiamarono l’ora della rivincita.
Niente di straordinario, a dir la verità.
Avevano semplicemente saputo che una famiglia aveva acquistato il seminterrato di sotto.
Che gioia fu sapere di avere anche loro qualcuno con cui sfogarsi…

www.romanzieracconti.it 
di Alessandro Ghebreigziabiher

Questo testo è stato inserito nel libro Il dono della diversità, Tempesta Editore.


09 marzo 2016

UNA DIGA ITALIANA MINACCIA INDIGENI ETIOPI E KENIOTI

Una diga italiana minaccia indigeni etiopi e kenioti. “Non possiamo mangiare l’elettricità”

AMBIENTE  Pubblicato il 22 OTT 2015 di  MARA BUDGEN

La diga Gibe III sul fiume Omo in Etiopia è una catastrofe ambientale e sociale finanziata con le tasse degli italiani e costruita dall'azienda milanese Salini Costruttori.

Gibe III, ormai i cui lavori di costruzione sono ormai agli sgoccioli, è una delle dighe più grandi dell’Africa. Come Gibe I e Gibe II, le dighe che l’hanno preceduta, interrompe il corso del fiume Omo in Etiopia, che rappresenta il 90 per cento degli affluenti del lago Turkana in Kenya, il lago in una zona desertica più esteso del mondo. 260mila indigeni di 17 tribù vivono nella bassa valle dell’Omo, la parte meridionale del fiume, e attorno al lago Turkana, sopravvivendo grazie a inondazioni stagionali. La diga da più di un milione e mezzo di euro, però, devia le acque che li sostengono per destinarle all’irrigazione di 445mila ettari di monocolture, principalmente canna da zucchero, e l’esportazione di energia idroelettrica.

























Sugli effetti di Gibe III non è mai stato condotto nessuno studio di impatto ambientale e sociale esaustivo e la costruzione della diga è stata affidata all’azienda di Milano Salini Costruttori senza gara d’appalto, violando le leggi dello stato etiope. Un programma di sfratti sistematici noto come “villagizzazione” ha fatto spazio per le piantagioni commerciali irrigate grazie alla diga, supportato dal programma per la Promozione dei Servizi di Base (PBS) finanziato dal Dag (Development assistance group). Quest’ultimo riunisce 26 istituzioni tra cui le agenzie per lo sviluppo dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Regno Unito (sostenute dalle tasse dei loro cittadini), e la Banca mondiale.

 

La diga sta causando danni irreversibili a due siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco, cinque parchi nazionali e l’ultima foresta pluviale in una zona desertica dell’Africa. Il Comitato per il patrimonio dell’umanità ha raccomandato che il lago Turkana, il cui livello dell’acqua potrebbe calare di ben 22 metri, venga inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, che include siti come Palmira in Siria.

La diga Gibe III sul fiume Omo in Etiopia è una catastrofe ambientale e sociale finanziata con le tasse degli italiani e costruita dall'azienda milanese Salini Costruttori.
Gibe III, i cui lavori di costruzione sono ormai agli sgoccioli, è una delle dighe più grandi dell’Africa. Come Gibe I e Gibe II, le dighe che l’hanno preceduta, interrompe il corso del fiume Omo in Etiopia, che rappresenta il 90 per cento degli affluenti del lago Turkana in Kenya, il lago in una zona desertica più esteso del mondo. 260mila indigeni di 17 tribù vivono nella bassa valle dell’Omo, la parte meridionale del fiume, e attorno al lago Turkana, sopravvivendo grazie a inondazioni stagionali. La diga da più di un milione e mezzo di euro, però, devia le acque che li sostengono per destinarle all’irrigazione di 445mila ettari di monocolture, principalmente canna da zucchero, e l’esportazione di energia idroelettrica.

Sugli effetti di Gibe III non è mai stato condotto nessuno studio di impatto ambientale e sociale esaustivo e la costruzione della diga è stata affidata all’azienda di Milano Salini Costruttori senza gara d’appalto, violando le leggi dello stato etiope. Un programma di sfratti sistematici noto come “villaggizzazione” ha fatto spazio per le piantagioni commerciali irrigate grazie alla diga, supportato dal programma per la Promozione dei Servizi di Base (PBS) finanziato dal Dag (Development assistance group). Quest’ultimo riunisce 26 istituzioni tra cui le agenzie per lo sviluppo dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Regno Unito (sostenute dalle tasse dei loro cittadini), e la Banca mondiale.
 
La diga sta causando danni irreversibili a due siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco, cinque parchi nazionali e l’ultima foresta pluviale in una zona desertica dell’Africa. Il Comitato per il patrimonio dell’umanità ha raccomandato che il lago Turkana, il cui livello dell’acqua potrebbe calare di ben 22 metri, venga inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, che include siti come Palmira in Siria.

La diga è un disastro ambientale, culturale e sociale. I popoli indigeni della
bassa valle dell’Omo e del lago Turkana sono piccoli agricoltori, cacciatori-raccoglitori e pastori. L’interruzione nel ciclo naturale di inondazioni dell’Omo e lo svuotamento del lago Turkana renderà impossibile per loro coltivare e allevare bestiame. Nell’assenza di soluzioni alternative proposte dal governo etiope o quello keniota molti temono che, senza cibo e un posto dove andare, queste popolazioni saranno costrette a combattersi l’un l’altra per sopravvivere. Come precisa un membro del governo locale della contea Turkana in Kenya “non possiamo mangiare l’elettricità. Abbiamo bisogno di cibo e di reddito”.
© Hans Silvester
Nonostante il Dag fosse già stato accusato in precedenza per aver sostenuto un programma di villaggizzazione nella regione Gambela dell’Etiopia a causa di violazioni di diritti umani, anche gli abitanti della bassa valle dell’Omo e il lago Tukana hanno subito un trattamento degradante. L’esercito etiope ha sfrattato violentemente, stuprato, imprigionato arbitrariamente e ucciso molti indigeni. Inoltre, essi non hanno potuto esercitare il loro diritto di consenso libero e informato sancito dall’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni unite.
 
Le foreste e le savane della valle dell’Omo (sinistra) trasformate in piantagioni (destra) © Survival
Indagini condotte dal Wwf dimostrano che le dighe esistenti nel mondo hanno causato la distruzione di zone umide, il declino delle specie di acqua dolce e lo spostamento forzato di milioni di persone. Secondo International rivers queste persone non godono dei benefici come energia idrica e irrigazione promessi da chi costruisce le dighe. Mentre è troppo tardi per bloccare Gibe III, bisogna fermare le violazioni di diritti umani in corso in queste regioni, trovare soluzioni perché le loro popolazioni indigene possano sostenersi, e pretendere che le nostre tasse non vengano spese dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo per finanziare grandi opere che radono al suolo comunità locali e patrimoni naturali.

www.lifegate.it
Pubblicato il 22 OTT 2015 di  MARA BUDGEN


04 marzo 2016

IL DRAMMA DELLE FAMIGLIE NEL CAMPO DI IDOMENI



La tortuosa strada che attraversa i campi di grano nei pressi del villaggio greco di Idomeni è piena di persone che trasportano grandi borse sulle spalle e bambini in braccio. 

Alex Yallop/MSF 
Il flusso di arrivi continua giorno e notte, ma non più di una media di 150 persone al giorno (solo i siriani e gli iracheni che hanno la fortuna di avere un passaporto o una carta d'identità dal loro paese d'origine) può continuare il cammino da questo luogo e attraversare il confine con la Macedonia (FYROM), proseguendo verso l'Europa occidentale e settentrionale. Pochi se ne stanno andando, ma di più, molti di più continuano ad arrivare, solo per finire bloccati in quella che sta diventando un’insostenibile situazione umanitaria. Oggi, in un campo di transito che ha la capacità di ospitare 1500 persone, ce ne sono più di 11.000 stipate in trappola senza informazioni, in un mix di ansia e delusione.

Tra quelli bloccati al gelo del campo di Idomeni, molte sono famiglie. 

                                                     Alex Yallop/MSF


Piman, che lavorava come insegnante d’inglese prima di lasciare la Siria, sta viaggiando da ormai due mesi. “Sono qui con la mia famiglia, dormiamo in queste piccole tende, non avremmo mai pensato di trovarci in una situazione orribile. Quando abbiamo lasciato la nostra città, i miei figli volevano portare i loro giocattoli e i libri ma io dicevo loro di non preoccuparsi, che avremmo preso giochi nuovi nella nostra nuova casa. Adesso continuano a chiedermi, dov’è la nostra nuova casa?”.

Nel campo di Idomeni la situazione è estremamente caotica.

Daniela, un’infermiera MSF a Idomeni, riassume così la situazione: “Ci sono confusione, stress e mancanza di informazioni affidabili. C’è un crescente sentimento di rabbia. Molti rifugiati stanno aspettando qui da oltre dieci giorni. Le persone sono davvero esauste”.

Nella clinica MSF che opera a Idomeni, arrivano costantemente intere famiglie, donne incinte e bambini, così come molte persone disabili e anziani che soffrono di malattie croniche.

Queste persone, bambini e anziani inclusi, sono costrette a dormire all’addiaccio, con solo un sacco a pelo a tenerle calde. Le grandi tende messe a disposizione da MSF sono piene da giorni e centinaia di tende più piccole sono sparse ovunque, anche accanto ai binari della ferrovia. 

Omar, un rifugiato palestinese che arriva dal campo siriano di Homs, è esausto: “Tutto questo mi rende molto nervoso, non so cosa succederà. L’attesa mi uccide. Ci sentiamo ignorati”.
 “Sono qui da una settimana e non ho idea di quanto ancora dovrò rimanere. Il confine è chiuso e non ci permettono di passare. Il campo è invivibile. Orribile. Voglio trovare un modo sicuro di proseguire, voglio trovare un posto dove crescere mio figlio. Aiutateci a trovare un percorso sicuro”, ripete Mustafa, rifugiato dal nord della Siria che è arrivato a Idomeni con la moglie Zuzan e due giovani cugini. È una delle persone che sta dormendo su un letto. Non lo possiamo certo definire fortunato ma altre famiglie passano la notte all’esterno, al freddo e nel fango.

Alex Yallop/MSF
Intere famiglie si stringono intorno a un fuoco di fortuna per stare al caldo, mentre aspettano che trascorra la notte. Nello stesso momento, in un ospedale vicino al campo, Rula, donna di 30 anni da Aleppo, dà alla luce il suo secondo figlio, chiamato Abdulrahmane. È arrivata a Idomeni incinta, con il marito Fahad e il figlio di un anno, Oman, ma le sue acque si sono rotte mentre era nella clinica MSF e il team l’ha fatta trasferire all’ospedale.

Dal 27 febbraio al 1 marzo, le squadre mediche di MSF hanno condotto 756 visite. Le principali patologie riguardano le vie respiratorie e infezioni gastrointestinali (in relazione alle inadeguate condizioni dei servizi igienici). La maggior parte dei pazienti sono donne e bambini al di sotto dei cinque anni. 
MSF sta fornendo ripari a oltre 4.000 persone e 34.000 pasti al giorno.

www.medicisenzafrontiere.it

29 febbraio 2016

29 FEBBRAIO: GIORNATA MONDIALE DELLE MALATTIE RARE

Si è scelto un giorno raro, come è il 29 febbraio, per celebrare la giornata mondiale delle malattie rare.
Sono definite “rare” quelle malattie che colpiscono meno di 5 persone ogni 10.000 abitanti. Il problema non sta nei numeri limitati dei soggetti interessati ma sulle conseguenze che questi numeri comportano, in termini di investimenti in ricerca, disponibilità di farmaci ma anche conoscenza di queste malattie da parte dei medici che devono formulare delle diagnosi e degli stessi pazienti che ne sono vittime. Va comunque sottolineato che negli ultimi anni sono stati fatti enormi passi avanti sia nella diagnosi che nella disponibilità di nuovi farmaci.

Rare diseases
Così gli inglesi chiamano le malattie rare. Fibrosi cistica, epidermolisi bollosa, fibrosi polmonare idiopatica, amiotrofia spinale infantile, malattia di Startgardt, sindrome di Williams, angioedema ereditario, distrofia muscolare di Duchenne, malattia di Fabry sono solo alcuni dei nomi di queste malattie, spesso definite anche orfane in quanto prive di farmaci per la loro cura.


Prese singolarmente sono rare, interessano meno di 5 persone ogni 10 mila abitanti, ma nel loro insieme sono numerose. Ne sono state identificate oltre 6 mila che, solo in Italia, interessano circa 670 mila pazienti. Oltre l’80% sono di origine genetica.

Possono essere mortali, in quanto incompatibili con la vita o associate ad alterazioni che portano ad una prospettiva di vita di non oltre qualche decennio, ma possono anche essere compatibili con una vita regolare associata a disagi da controllare in qualche modo.

Ci sono anche patologie definite ultra-rare o rarissime che colpiscono meno di una persona ogni milione. Fare una diagnosi corretta di queste patologie non sempre è possibile, in tempi brevi, sia perché poco conosciute, sia perché scambiate con altre patologie più comuni. Solo in Italia, per esempio, il 25% dei pazienti di malattie rare attende da 5 a 30 anni per avere conferma di una diagnosi. E questo, a volte, avviene solo dopo che i pazienti hanno consultato vari centri specialistici, non sempre presenti nel territorio dove vivono.

Giornata mondiale dedicata alle malattie rare
E’ stato scelto un giorno che capita ogni 4 anni, il 29 febbraio appunto, per ricordare le malattie rare, i pazienti e le loro famiglie. Ma soprattutto per sensibilizzare istituzioni, industriali, sanitari e opinione pubblica verso un problema che, proprio in virtù di questi numeri, non sempre trova sensibile.

Per farlo quest'anno UNIAMO FIMR Onlus (Federazione Italiana Malattie Rare) invita tutti a unirsi ad una campagna di sensibilizzazione inviando messaggi tweet con l'hashtag #UniamoLaVoce o su un sito dedicato, uniamolavoce.org dove postare messaggi e video. La campagna proseguirà fino a sabato 5 marzo e prevede un miniconcorso.

Altre iniziative ci saranno in 170 piazze in oltre 130 città italiane. A livello mondiale la Giornata verrà celebrata in oltre 80 Paesi: la mappa dei paesi coinvolti e delle varie iniziative in programma, è consultabile su rarediseaseday.org. Per altre informazioni: www.uniamo.org; www.malatirari.it.

Giuseppe Giannini
it.blastingnews.com

13 febbraio 2016

LA STORIA DEI COLORI

In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è impossibile descriverli. 
Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere possesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l'azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l'autunno dovette cedere
il posto al giallo, al marrone, al rosso... 
I colori cominciarono a litigare tra di loro, perché non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sé e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori. 
Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.
"Ora basta! - disse il Padreterno - non posso lasciare il mondo in questo stato!", e con tutto l'impegno di cui era capace creò l'arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura... poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c'era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l'arancione, poi il verde, l'azzurro il blu... con mille altre nuove sfumature una più bella dell'altra! 

Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d'accordo, con gioia si cedevano il passo l'un l'altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall'armonia dell'Amore. 








Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l'origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell'arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l'anima e il corpo, il passato e il futuro.