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14 dicembre 2017

LO SCIOPERO DEL NATALE

Questa storia è avvenuta quando ancora gli scioperi non esistevano, o meglio, erano poco conosciuti. Probabilmente, possiamo considerare lo sciopero di questa storia come il primo vero sciopero in assoluto. La storia riguarda tutti i Babbo Natale della Terra, pronti a protestare, ma andiamo a conoscerne il motivo.

Tanto tempo fa, così come avviene ancora oggi, durante l’anno i Babbo Natale della Terra, rinchiusi nei loro rifugi del Polo Nord, erano intenti a leggere le letterine ricevute da ogni bambino e a preparare con cura i regali.

È stato questo, da sempre, il lavoro dei Babbo Natale, che possiedono mezzi potenti per raggiungere in breve tempo ogni angolo della Terra. Ad esempio, il Babbo che si occupa di distribuire i regali nel continente africano, ha un calesse gigantesco, trainato da quattro magnifici struzzi.

Quello diretto in Asia, siede su un comodo baldacchino montato sul dorso di un enorme elefante; mentre il Babbo Natale europeo viene a trovarci sulla classica slitta trainata dalle renne, più abituate al nostro freddo. C’è invece un magnifico canguro, che nella sua grande pancia trasporta il Babbo diretto in Australia. Un’infinità di mezzi rimarrebbero ancora, ma li lasciamo allo spazio dell’immaginazione.

Purtroppo, qualcosa di veramente grave stava accadendo in quel tempo al Polo Nord, qualcosa che poteva mettere a repentaglio il Natale.

-“È proprio un macello!”, disse il Babbo Natale che portava i doni in Cina. “Anche oggi, l’orso postino ha portato poche lettere”.

-“Già”, rispose il Babbo Natale africano, mentre sistemava le sue zebre. “Solo lo scorso anno ne ricevevamo a centinaia ogni giorno”.

-“Per non dire di qualche anno fa, quando i bambini ci sommergevano di lettere di richieste”, aggiunse quello americano.

-“Le lettere di quest’anno sono troppo poche”, disse il Babbo giapponese. “E c’è da aggiungere che molte le ha scritte l’orso postino per non vederci così tristi. Senti questa come recita: “Caro Babo Nattale, sonno un bambbino di sete anni e desiddero ricevere a Nattale una bela e suggosa bisteca di balena che non lo mai sagiata”.

-“Hai ragione”, disse l’ennesimo Babbo sentendo quelle parole, “nessun altro avrebbe saputo scrivere una lettera simile. Ma cosa sta succedendo?”

-“Ve lo dico io”, disse il Babbo australiano. I bambini non credono più in Babbo Natale e per questo hanno smesso di scrivere le lettere”.
-“Ma come mai? Chi li ha convinti di questa cosa?”

-“Secondo me”, disse il Babbo europeo, “i genitori non hanno più nè il tempo nè la pazienza di raccontare ai loro figli la storia di Babbo Natale. E poi, al giorno d’oggi, con i ritmi della vita moderna, chi vuoi che abbia voglia e tempo di credere a noi?”.

-“Ma se nessuno ci scrive più, chi porterà ai piccoli i regali che desiderano?”

-“Anche quest’anno”, disse il Babbo africano, “solo pochi bambini riceveranno i regali, per lo più figli di gente benestante”.

-“È una cosa bruttissima” protestarono insieme i Babbi. “Dobbiamo fare qualcosa!”.


-“E cosa possiamo fare?” domandò il Babbo asiatico.

-“Facciamo uno sciopero collettivo. Quest’anno non porteremo i doni a nessuno”, disse il Babbo europeo. E aggiunse, “stamperemo tanti volantini da distribuire sulla Terra, con una scritta che segnali lo sciopero di Babbo Natale per quest’anno, visto che nessuno vuole più credere in lui”. E così decisero.

Quell’anno, il giorno di Natale, i bambini di tutto il mondo erano tristi per non aver ricevuto nemmeno un dono. Ma alla fine, bambini ed adulti capirono di aver sbagliato nell’aver perso lo spirito natalizio; così vollero scusarsi con i Babbo Natale mandandogli una montagna de lettere. Fu così che il Natale ritornò alla normalità, anzi quell’anno i bambini ricevettero il doppio dei regali desiderati.

Illustrazioni : Lisi Martin
(iamachild.wordpress.com)

03 dicembre 2017

SONO NATO ALBINO. UN BIMBO BIANCO IN UNA FAMIGLIA MAASAI

Sono un keniota e ho 44 anni. Sono nato in una comunità conosciuta in tutto il mondo, la comunità Maasai. Sono il sesto di otto figli. Sono nato albino. Un bimbo bianco in una famiglia Maasai.

La mia comunità rispetta molto la vita umana e difende il socialismo: la collettività è alla base delle nostre attività. La maggior parte delle cose - la proprietà, i bambini, le ricchezze - è considerata proprietà e responsabilità della comunità. Tuttavia, questa comunità considera le persone con disabilità come cattivi presagi per la comunità stessa. A volte, un bambino disabile viene denominato “oloibe Enkai”, “odiato da Dio”.


La tradizione Maasai consente ad un padre di ripudiare un figlio, se ritiene che non sia il suo figlio biologico. In passato, se un padre dubitava della paternità di un bambino, poneva, secondo la tradizione, il bambino davanti al cancello del recinto, dove venivano tenute le mucche. Quando le mucche venivano  spinte fuori dal recinto, da quel cancello, si credeva che se il bambino fosse stato suo, le mucche avrebbero evitato di calpestarlo; se, invece, il bambino non fosse stato suo, le mucche lo avrebbero calpestato, sì da ucciderlo all'istante.  Sempre secondo la tradizione, quando una donna Maasai dava alla luce un bambino albino, il bambino veniva privato del latte materno e sottoposto a condizioni durissime, perché morisse prima che il marito se ne accorgesse. 
Per ragioni che non conosco, mi sono stati risparmiati questi due destini.

La mia nascita è stata traumatizzante per tutta la mia famiglia.
E’ stato difficile per mia madre convincere mio padre che io ero veramente suo figlio. C’è stata da parte sua una forte resistenza, ma alla fine  mi ha accettato. 
E’ stato difficile convincere il resto della comunità che mia madre non aveva avuto una relazione con il prete locale, che era un uomo bianco.
E’ stato difficile convincere la mia comunità che IO ero UNO DI LORO.
Durante la mia infanzia, i miei genitori non sapevano come aver cura della mia pelle, così delicata. Ho avuto molti problemi, dovuti soprattutto alle  scottature e all’ipovisione. Non c’erano operatori socio-sanitari che sapessero cosa fare con un bambino albino. Non c’erano educatori specializzati   in grado di fornire un’assistenza adeguata.
Tali figure sociali non sono ancora presenti nella mia comunità.

Come tutti i ragazzini, avevo bisogno di “mescolarmi” agli altri e socializzare, giocare con i miei coetanei. Non è stato facile, perché, spesso, gli altri ragazzi mi prendevano in giro. Si aspettavano che io piangessi. Alcuni  non mi toccavano per paura di essere 'infettati' dalla mia disabilità.
Non so quante volte ho cercato la solitudine!

E, sono rimasto solo!... perché non volevo essere chiamato “uomo bianco”. Questo è ironico, vero? Di solito, quando le persone, che vivono nei paesi in via di sviluppo, sono associate con la civiltà occidentale, si sentono lusingate. Nel mio caso, ogni volta che venivano menzionati i termini  “uomo bianco o 'Mzungu', venivano richiamati alla mente tutti i miei problemi. Quando andavo nei villaggi, in particolare nuovi luoghi lontano da casa, i bambini piccoli gridavano contro di me, a gran voce. Avrei voluto farli tacere. Avrei voluto scomparire rapidamente dalla  loro vista, ma la mia scomparsa da loro mi avrebbe portato, prima o poi, al cospetto di altri. Essi mi trattavano come  trattavano i turisti provenienti dai paesi europei, allo scopo di ottenere piccoli regali, come caramelle e giocattoli. Quando si rendevano conto che ero solo un africano di pelle bianca, si mettevano a ridere e mi insultavano.
 
Vorrei ringraziare Dio per l'intelligenza che mi ha donato. La capacità di afferrare i concetti mi è stata di grande aiuto a scuola. Ero in una classe di bambini”normali”. Nel tentativo di nascondere la mia disabilità, fingevo di riuscire a leggere ciò che c’era scritto alla lavagna e fingevo di seguire quello che l'insegnante diceva . C’è voluto molto tempo,  prima che i  miei insegnanti si rendessero conto che avevo un problema alla vista. In Kenya, a quel tempo, era consentito picchiare i bambini. I miei insegnanti continuavano a picchiarmi, pensando che così facendo mi avrebbero fatto copiare gli appunti o seguire quello che dicevano. Ho sopportato le percosse. Non avevo il coraggio di dire qual’era il mio problema, perché temevo che i miei amici ridessero di me.
Ho sofferto molto per gravi scottature solari. Non sapevo ci fossero creme di protezione solare. Ne sono venuto a conoscenza solo più tardi.
Le creme solari sono molto costose. Una  persona comune in Kenya non se le può permettere.

I problemi maggiori sono venuti durante l’ adolescenza, quando “si fa sentire” la necessità di relazionarsi con l’altro sesso. Il desiderio di amore e di intimità, connessi alla paura dell’accettazione. Pensavo che nessuno mi avrebbe mai amato, perché il mondo intero sembrava molto ostile nei miei riguardi. Questo problema l’ho superato, alla grande! Ho incontrato una donna molto gentile e amorevole che ha riversato su di me tutto il suo amore, nonostante la mia disabilità. Insieme, abbiamo costruito una famiglia: abbiamo  tre figli . Il nostro rapporto è sereno.

La mia esperienza di vita ha fatto nascere in me il desiderio di essere utile ai bambini con esigenze speciali, con l’ obiettivo di aiutare quelli che condividono il mio problema e gli insegnanti ad essere sensibili alle esigenze dei loro studenti.
Attualmente lavoro presso l'ufficio istruzione del dipartimento dei bisogni educativi speciali. Ci sono molte sfide da superare: l’ ignoranza da parte dei fornitori dei servizi, la mancanza di politiche di governo su questioni legate ai bisogni educativi speciali, il livello di povertà tra le comunità del Kenya,  le pratiche e le credenze tradizionali.
Ho dato inizio ad un progetto: sollecitare la fornitura di creme solari per i bambini con albinismo. E’ la sfida più grande della mia vita!
Ho bisogno di aiuto perché il nostro futuro sia luminoso.



Alex Munyere
www.albinismo.it

21 novembre 2017

L'INCREDIBILE STORIA DI ELLEN E WILLIAM CRAFT, SCHIAVI INNAMORATI FUGGITI GRAZIE A UN TRAVESTIMENTO

A metà dell’Ottocento nella parte orientale degli Stati Uniti il colore scuro della pelle rappresentava una condanna alla schiavitù. Questo accadeva anche in Georgia, nella tenuta della famiglia Smith, dove viveva una schiava di nome Maria insieme ad altri sfortunati compagni.

Se le pretese della signora Smith riguardavano pulizie e cucina, quelle del capofamiglia erano di natura sessuale. Lo sapevano i coniugi e lo sapeva Maria, lei stessa frutto del rapporto tra la madre e un uomo bianco.
La genetica, però, si prese gioco del signor Smith, il quale ebbe da Maria una figlia, Ellen, dalla pelle chiarissima. Un colorito sfacciatamente ambiguo che metteva in imbarazzo la signora Smith, costretta a puntualizzare ai curiosi che no, lei non faceva parte della prole.
La donna si disfece ben presto della piccola offrendola come regalo nuziale a una delle sue figlie (nonché sorellastra di Ellen): Eliza, che la trattò con moderato rispetto e le impartì alcune nozioni di cultura generale. Questo fece prendere coscienza a Ellen della propria condizione e la ragazza cominciò a sognare l’impossibile.

Ellen si innamorò di William Craft, uno schiavo che aveva assistito in lacrime alla vendita della sorella quattordicenne per poi essere anch’egli ceduto per ripagare i debiti di gioco del padrone. Così anche lui prese coscienza della propria condizione e cominciò a escogitare l’impossibile.

William apparteneva a un funzionario di banca il quale lo faceva lavorare da un falegname.

La coppia di schiavi si sposò nella cittadina di Macon dove le loro vite si erano incrociate. Quando fu il momento di avere dei figli decisero che mai avrebbero accettato di vederseli portare via come era successo ai loro genitori. L’unica soluzione era metterli al mondo negli Stati liberi, da persone libere. Fu questo a convincerli definitivamente a fuggire.

Milioni di pigmenti separavano William dalla libertà, mentre Ellen godeva di una posizione indubbiamente privilegiata. Proprio dal colore chiaro della pelle della donna prese spunto il loro geniale piano di fuga.

William avrebbe vestito i panni che mai aveva dismesso, quelli da schiavo, mentre Ellen avrebbe recitato il ruolo del giovane padrone sudista. Più volte Ellen fu presa da sconforto e in procinto di abbandonare l’assurdo progetto di farsi passare per uomo, per di più bianco. Ma William la convinse a proseguire sulla folle strada.

I Craft sapevano che se fossero stati catturati ad attenderli non avrebbero trovato la vita di prima, ma torture, mutilazioni e la loro inevitabile separazione. Sapevano di non poter fallire e si applicarono in modo maniacale a quella che sarebbe diventata la più grande beffa al sistema schiavista.

Ellen avrebbe dovuto impersonare un possidente malato di reumatismi in viaggio verso il nord. Un bendaggio parziale al volto avrebbe limitato l’esposizione dei suoi tratti delicati, ma soprattutto le avrebbe evitato di dover pronunciare troppe parole rivelando così la voce femminile. Infine, una fascia al braccio destro avrebbe fornito alla donna analfabeta la scusa valida per non dover firmare alcun documento. Né per lei né per il suo servo.
Fissarono la fuga nel periodo di Natale, l’unico che avrebbe permesso un’assenza prolungata senza destare sospetti. Gli schiavi potevano infatti muoversi entro brevi distanze e periodi limitati, e solo grazie a un lasciapassare. Ellen e William lo ottennero con riluttanza dai rispettivi padroni per fare visita a parenti inesistenti.
Quel giorno la donna indossava un completo elegantissimo da uomo, da lei stessa confezionato, copiato a uno dei facoltosi ospiti che capitavano in casa, un costoso cappello e un paio di occhiali. Anche la fasciatura al volto e al braccio erano opera sua. William completò il travestimento tagliandole i capelli. Era mattino e prima di dirigersi al treno che li avrebbe portati a Savannah si inginocchiarono e pregarono il Signore che tutto andasse per il verso giusto.

Dio, però, sembrava essersi distratto. Arrivati alla stazione si divisero: Ellen acquistò i biglietti per sé e per il suo schiavo e si avviò al sedile assegnato, William prese posto nella carrozza riservata ai neri. Fu lì che l’uomo, con il terrore negli occhi, avvistò il suo datore di lavoro aggirarsi per la stazione. Lo vide dirigersi verso il bigliettaio, chiedere informazioni e avvicinarsi a passo spedito verso il treno.
Stava passando in rassegna l’interno di tutte le carrozze, cercando qualcuno. Sicuramente aveva subodorato la fuga dello schiavo. William, sentendosi spacciato, riuscì solamente a girarsi in direzione opposta al finestrino. Mancavano pochi metri prima che il falegname raggiungesse la carrozza di William, quando il campanello della ferrovia suonò. Passarono una manciata di secondi e il treno partì.

Nel frattempo Ellen, inconsapevole del rischio appena scampato, si apprestava a correrne un altro. Mr. Cray, amico di lunga data dei suoi padroni, stava condividendo lo stesso scompartimento della donna. Appena lo vide temette fosse stato mandato appositamente dai suoi proprietari per trattenerla.
“Davvero una bella giornata, Sir!” le si rivolse Mr. Cray. La donna si limitò a tenere lo sguardo fisso verso il finestrino. “Davvero una bella giornata” disse con tono più forte l’uomo, incapace di rassegnarsi alla sua indifferenza. I presenti avevano notato la scena, ora Cray pareva infastidito e imbarazzato per l’affronto subito, ripeté quindi una terza volta quello che non era più un banale commento meteorologico.
Dalle bende di Ellen uscì un debole “Sì”. Uno dei presenti commentò quanto dovesse essere difficile viaggiare per un malato. “Vero” disse soddisfatto Cray “e dunque non disturberò più questo gentiluomo”. Ellen capì che l’amico di famiglia non era sulle sue tracce e che il travestimento stava funzionando. Il resto dei presenti proseguì nella conversazione toccando temi di attualità quali l’abolizionismo, il cotone, i negri.

Arrivati a Savannah, William ed Ellen si imbarcarono su un battello che li avrebbe portati fuori dalla Georgia, a Charleston, nel South Carolina. Da lì avrebbero cercato di abbandonare definitivamente gli stati che esponevano la bandiera confederata, quella stessa bandiera che nel 2016 Obama ha vietato all’interno dei cimiteri pubblici. Mille chilometri separavano i Craft dalla loro terra promessa, Philadelphia, nella Pennsylvania abolizionista.
Il battello stava proseguendo nella navigazione, mancavano poche ore all’arrivo e gli innamorati si trovavano nella grande sala da pranzo con il resto dei passeggeri. William imboccava con cura il suo padrone, il quale mostrava inusuale cordialità, forse troppa.
Un giovane ufficiale sudista si avvicinò con fare cortese: “Mi scuserà per ciò che sto per dirle, Sir, ma credo sia sulla giusta strada per rovinare del tutto il suo schiavo. Le assicuro, Sir, niente lo guasterà quanto rivolgergli parole come ‘grazie’ e ‘prego’. L’unico modo per far rigare dritto un negro è farlo tremare come una foglia, sempre”. Ellen annuì, lo ringraziò, disse che ne avrebbe fatto tesoro. Il battello era finalmente giunto al molo di Charleston, l’ufficiale si congedò e tutti i passeggeri si misero in fila per scendere.

Novecento chilometri adesso separavano la coppia da Philadelphia. Presi i biglietti sarebbe bastato salire sul treno e attendere in silenzio che questo scivolasse verso nord sulla ferrovia. I biglietti, appunto. Per ottenere quello di William era necessaria una firma, serviva a garantire che lo schiavo appartenesse realmente al padrone.
Ellen pagò i due dollari necessari e, indicando il braccio destro immobilizzato, chiese al bigliettaio di registrare i nomi al posto suo. “Certo che no!” urlò con voce alterata “non firmerò al suo posto”. La scena aveva raggelato il sangue dei Craft e attirato l’attenzione dei presenti. Anche quella dell’estroverso ufficiale sudista che aveva messo in guardia Ellen dal rivolgersi con cortesia allo schiavo.

Il giovane era una persona molto nota a Charleston e volle informarsi con il malato su cosa stesse succedendo. Quando il capitano della nave lo vide interloquire con lo straniero decise che si sarebbe assunto la responsabilità di registrarlo come passeggero. Non prima di avergli chiesto il nome: “Mr. Johnson” rispose Ellen. “Bene Mr. Johnson, ora è tutto a posto, può salire a bordo con il suo schiavo.”
Il personale sogno americano dei Craft stava per avverarsi. A Baltimora, però, un ligio funzionario doganale era in agguato. Disse che non c’erano sufficienti prove che il negro appartenesse a Mr. Johnson, che se lo avesse lasciato espatriare se la sarebbe poi dovuta vedere egli stesso con l’eventuale vero padrone. Una grana che non aveva alcuna intenzione di affrontare.
Il sogno della coppia stava per svanire, a meno di 50 chilometri dalla frontiera. Il dio invocato nelle preghiere di Ellen intervenne sotto forma di protesta popolare, lanciata dai presenti in solidarietà al malato bisognoso di cure e dunque dell’assistenza dello schiavo. Il funzionario capì che le rimostranze si sarebbero rivelate una grana e accettò di far proseguire la coppia.
Il giorno di Natale del 1848 il treno entrò nella stazione di Philadelphia. Se qualcuno avesse sbirciato dentro lo scompartimento di prima classe, nel quale William si era precipitato a raggiungere la moglie, avrebbe notato uno yankee bendato e in lacrime baciare appassionatamente il suo nerissimo schiavo. Probabilmente troppo anche per uno stato abolizionista.
Liberi e stremati i Craft si misero subito in contatto con la comunità afroamericana di Philadelphia, che trovò loro una sistemazione a Boston.

La storia suscitò grande interesse tra gli abolizionisti e la coppia venne invitata a tenere discorsi pubblici sulla loro fuga. Due anni dopo, quando ormai i Craft credevano di essere al sicuro, gli ex padroni di Ellen inviarono due cacciatori di schiavi per riprendersi ciò che consideravano ancora di loro proprietà.
La cattura fallì grazie alle protezioni della comunità abolizionista, ma i possidenti si appellarono alle massime autorità. Il tredicesimo presidente degli Stati Uniti, Millard Fillmore, acconsentì alla richiesta degli schiavisti e autorizzò l’utilizzo dei soldati.

Boston non era più un luogo sicuro per i Craft. Gli sposi si imbarcarono sulla prima nave in partenza per Liverpool; qui ebbero cinque figli e decisero di dare alle stampe le loro memorie (Running a Thousand Miles for Freedom) narrate in prima persona da William. Solo nel 1870 poterono tornare in Georgia: si ricongiunsero ai familiari che non vedevano da vent’anni e aprirono una scuola per tutti gli afroamericani che da poco avevano conosciuto la libertà.










 www.tpi.it

09 novembre 2017

LETTERA DI UN "NUOVO" ITALIANO SULLO IUS SOLI


La lettera aperta sullo ius soli di Samir Bastajib, un giovane studente di medicina nato ad Aosta e diventato cittadino italiano 12 anni fa, quando i suoi genitori, di origine marocchina, hanno ottenuto la cittadinanza.

Caro italiano,

mi chiamo Samir, e, nella speranza che la mia penna scialba e farraginosa non t’uccida di noia sin dal principio, ti scrivo quest’oggi per esternare una manciata di riflessioni riguardo al tanto vituperato disegno di legge sulla cittadinanza, tuttora in discussione a Palazzo Madama.

Benché il mio nome esotico rimandi a oltre le colonne d’Ercole, laddove un tempo – per i più – erant leones, sono nato nella pittoresca e ridente Valle d’Aosta, giacché i miei genitori abbandonarono i caldi lidi del Marocco venticinque anni or sono per trasferirsi nel Bel paese in cerca di fortuna.

Per quanto il legame affettivo con il mio paese d’origine sia oramai indissolubile, i luoghi che han rapito il mio cuore si trovano tutti nello stivale. Sono infatti divenuto adulto percorrendo la Valle Oscura assieme al Sommo Poeta, contemplando l’ermo colle seduto di fianco al Giovane Favoloso di Recanati, sostando alla Taverna dei Destini Incrociati gestita dal vecchio Italo Calvino, finendo dunque per innamorarmi follemente d’una meravigliosa cultura che ora ritengo mia.

Eppure, a dispetto di quest’amore incondizionato, non sono formalmente italiano che da una dozzina d’anni, ossia da quando i miei genitori hanno ottenuto e poi trasmessomi la cittadinanza italiana per mezzo del macchinoso e bizantino iter burocratico che la legge prevede. Il fato, o meglio, gli angusti meandri del diritto nostrano, m’hanno pertanto concesso il vanto di nascere in Italia, ma non il privilegio di nascere italiano.

Correntemente, infatti, la cittadinanza italiana – salvo infrequenti eccezioni – viene trasmessa al figlio dai genitori secondo il principio del cosiddetto ius sanguinis. Questo comporta, di conseguenza, che chi, come il sottoscritto, nasce sul suolo italiano da genitori stranieri – a meno che questi non l’acquisiscano prima e gliela trasmettano – sia costretto ad attendere la maggiore età per richiederla e divenire de iure ciò che è sempre stato de facto. Se questa legge venisse promulgata, il paese aprirebbe invece i propri orizzonti ai principi dello ius soli e dello ius culturae, che consentirebbero a chi vi nasce o vi giunge in tenera età e vi studia d’entrare immediatamente nella corposa frotta di “italiani dell’ultima ora”.

Muovendo ora l’obiettivo su quel raffinato marasma che è la politica italiana, chiamata in questi giorni a compiere quella che io reputo una scelta di civiltà, m’immalinconisco. Non è un segreto che il disegno di legge, approvato a Montecitorio sul finire del 2015, sia saltato agli onori di cronaca solo recentemente in seguito al farsesco veto posto dai soliti partiti di (più o meno) estrema destra.

La ragione della mia mestizia risiede non tanto nella posizione di chi strenuamente s’oppone allo ius soli, quanto nel tenore della discussione, che ha tristemente spiegato le vele verso il mare burrascoso del pragmatismo. Fra chi senza vergogna parla di islamizzazione, e chi addita gli extracomunitari di mero utilitarismo, le alte sfere si son perse nell’enumerare una sterminata sequela di vantaggi e svantaggi concreti cagionati dall’avere o meno la cittadinanza italiana, dimenticando d’allargare l’inquadratura sino a porsi la domanda più importante: che cosa significa essere cittadini italiani? E prim’ancora, che cos’è la cittadinanza, un grigio mezzo di coesione sociale o un alto ideale?

Sono certo del fatto, in questa mia manchevole e salottiera riflessione, che se i governanti riscoprissero la profondità d’analisi e di pensiero (soppiantate, ahinoi, da frasi fatte e multimedialità) che han reso illustre la nostra nazione nel corso del secolo breve, si giungerebbe presto alla conclusione che l’italianità risiede, tout simplement, nel decidere lucidamente di identificarsi negli ideali di giustizia e uguaglianza sanciti dalla nostra meravigliosa costituzione.

E che non la si può negare celandosi dietro al muro della diffidenza destinato, come quello di Berlino, a crollare sommerso dal peso della propria inadeguatezza.
                                                                                                                                                                                                   Samir Bastajib

www.tpi.it/2017/06/29

30 ottobre 2017

NAMIBIA: VIAGGIO TRA GLI HIMBA, DOVE LE DONNE SI FIDANZANO A 2 ANNI E DECIDONO IL DIVORZIO

Foto M. Balbi
Una donna è seduta in terra in un villaggio appartenente alla tribù Himba, sulle montagne del Damaraland, nella Namibia centro-settentrionale.
Tiene tra le gambe una pietra piatta, dove sbatte a ritmo regolare una tonda pietra rossa. A ogni colpo una nuova briciola di polvere rossa va a aggiungersi al resto della polvere che splende al sole. È la famosa hocca, che le donne himba usano per cospargersi il corpo.

Si chiama Chatuncu, che significa “chi costruisce”. Accanto ha due bimbi che sorridono. Uno di loro accosta la mano alla bocca e manda dei baci. Sono i suoi figli e me lo fa capire mostrando due cavigliere che indicano il numero dei figli.

La polvere “hocca” – foto M.Balbi
Continua a sbattere la pietra, poi prende un piccolo barattolo contenente grasso di mucca, prende la mia mano e mi mostra come la polvere unita al grasso può colorare la pelle.



Tute le donne lo usano?” chiedo, con l’aiuto di Ueera, un giovane ranger che mi fa da interprete. “No, soltanto le donne che hanno avuto la loro prima Luna (il ciclo mestruale, ndr). Da quel giorno possono cospargersi il corpo sino a due volte al giorno”.

Vedo che la hocca penetra in profondità nella pelle. “Non va mai via?”.  “No, anche perché noi non possiamo fare il bagno. Solo gli uomini possono farlo”.

Poi racconta delle attività delle donne nel villaggio, sempre sorridendo. “Andiamo a prendere l’acqua, la legna, mungiamo le mucche perché ci diano il latte, curiamo le nostre stanze, cuciniamo, costruiamo gli oggetti, ci occupiamo dei bambini. Io ne ho due, ma le donne in genere ne hanno molti, nove o dieci”. Indica una donna che in una pentola mescola latte e mais.
“E gli uomini di cosa si occupano?”
Capanna nel villaggio Himba – foto M. Balbi
“Gli uomini costruiscono i recinti dei villaggi, la struttura delle case e guardano le mucche”.

Mentre parla un uomo passa poco più avanti, dice alcune parole a una donna seduta per terra e procede oltre. “Quello è mio marito”, dice.

“Quando vi siete sposati?”
“La sua famiglia mi ha scelto quando avevo due anni”.

“Due anni?” domando, non essendo sicura di aver capito bene. “Sì, uno o due anni. Noi non contiamo gli anni. Non so con precisione in che anno sono nata. Quando ha deciso di sposarsi, io ero la sua cugina più giovane”.
“Quindi ti ha scelto perché eri sua cugina?” chiedo. “Sì, ci sposiamo tra cugini in modo che il bestiame rimanga in famiglia. Lui ha dato una mucca a mio padre, una a mia madre e una l’abbiamo usata per il matrimonio. Io sono rimasta a vivere con mia madre sino a che non ho avuto la mia prima Luna, poi ci siamo sposati nel mio villaggio”.
“È stata una bella cerimonia?”
“Sì, i matrimoni mi piacciono molto. Tutti sono felici, si beve, si danza, per diversi Soli. Sono le cerimonie più belle”.

“Quali sono le altre cerimonie?”
“Beh, ci sono i funerali, che sono belli, anche lì ci sono danzatori appositi, durano due Soli, prima ci riuniamo attorno al fuoco sacro” al centro del villaggio.
“Come mai vi riunite lì?”
“Per dire agli Antenati che stiamo portando un nuovo Spirito. Poi arrivano persone anche dagli altri villaggi. Chiunque conoscesse il defunto può unirsi”.
“Vi riunite spesso attorno al fuoco sacro?”
“Certo, gli Spiriti devono essere al corrente di ogni cosa che succede nel villaggio”.

“Quali altri eventi celebrate?”
Foto M. Balbi


“Mmm... quando un uomo uccide un leopardo o una iena facciamo una cerimonia. Anche quando togliamo i denti davanti ai bambini”. “Come mai lo fate?” “Per distinguerli dalle altre tribù”.
Passa di nuovo il marito, sorride e saluta calorosamente. Lei sembra molto orgogliosa e fiera di lui.

“Potete anche divorziare?”
“Certo! Se non sono felice posso andarmene”
“E chi sancisce il divorzio?”
Non capisce la domanda. “Chi decide sul divorzio?” ripeto.
Mi guarda con gli occhi spalancati: “Io, se sono infelice lo decido io”.

Michela Balbi
www.b-hop.it

27 ottobre 2017

RACCONTO LA TRATTA, PERCHE' NEI VILLAGGI DELLA NIGERIA NESSUNO SA LA VERITA'

Come ho fatto ad essere così stupida? Come ho fatto a fidarmi e a non accorgermene? Inizia con queste domande la testimonianza di Blessing Okoedion, una ragazza di trent’anni, nigeriana. Oggi è una mediatrice culturale, nel suo passato ci sono la strada e la prostituzione. Blessing è una ex vittima della tratta. È arrivata in Italia nel 2013, ingannata da una donna che lei ora definisce un «lupo travestito da agnello». Ha una laurea in informatica Blessing, ma non è bastato a riconoscere l’inganno, tanto era studiato il “travestimento”: «appena ho capito quale lavoro avrei dovuto fare, qui in Italia, non facevo altro che ripetermi “come ho fatto”, “come può essermi successa questa cosa”». La catena di Blessing era un debito da 65mila euro, così le disse quella donna che l’aveva ingannata. Lei ha avuto la forza di romperla, denunciando e ricominciando una nuova vita. E raccontando la sua storia in un libro appena pubblicato, Il coraggio della libertà (edizioni Paoline) scritto insieme alla giornalista Anna Pozzi.

Nel mondo sono almeno 21 milioni le persone vittime di tratta, per il 70% donne e bambini. “Tratta” significa persone trafficate e sfruttate, prevalentemente per sesso e lavoro servile: ogni due minuti, nel mondo, c’è un bambino che viene sfruttato sessualmente. È un giro d’affari che vale 32 miliardi di dollari l’anno e che in Europa vale più del traffico di droga o d’armi. Se ne è parlato nel convegno “Migrazioni e traffico di persone”, a Milano. È un fenomeno che tocca anche l’Italia, in ogni sua zona. Solo in Italia sono 50-70mila le donne vittime della tratta, circa la metà giovani nigeriane: ogni mese qui in Italia da loro si acquistano 9-10 milioni di prestazioni sessuali. Lo sfruttamento del lavoro riguarda invece 150mila persone: lavoro schiavo, non semplicemente lavoro nero, con sottrazione di documenti, salario di poche decine di euro per 12 ore di lavoro, condizioni abitative disumane, fornitura di beni di prima necessità obbligatoria e a caro presso. Basta un dato per capire quanto la tratta ci riguardi: le donne nigeriane sbarcate in Italia nel 2016 sono state 11mila: erano la metà (5.600) l’anno prima. Molte di loro, come Blessing, si chiedono “come è possibile”.

Come è possibile? «Tante persone in Nigeria hanno sentito parlare della tratta. Ma nelle città. Nessuno va nei villaggi a raccontare. I trafficanti sanno che non possono più prendere ragazze in città, ma nei villaggi questi appaiono come gli unici salvatori. I nostri villaggi sono abbandonati dalle autorità, i trafficanti arrivano, promettono un lavoro, magari come baby sitter. Sono una mano tesa per persone abbandonate a loro stesse, l’unica mano tesa. Con quaranta euro si
@myakim
prendono una ragazza», racconta Blessing. La sua voce si leva forte, potente: «Ma è forse un peccato vivere in un villaggio? Non parlare inglese? Perché lì nessuno racconta la verità? Perché nessuno spiega a queste ragazze e alle loro famiglie cosa sia la tratta?».



Blessing
Il problema che Blessing denuncia - tecnicamente lo chiamano "gap informativo" - è un nodo cruciale delle migrazioni odierne e dei tentativi di arginare i numeri del traffico di esseri umani, tant'è che l'OIM-Organizzazione Mondiale per le Migrazioni ha avviato una campagna informativa sui social chiedendo a migranti arrivati in Italia di registrare una brevissima testimonianza in cui raccontino la verità su ciò che hanno passato in Libia, perché «chi parte non sa cosa lo aspetta», afferma Flavio Di Giacomo, portavoce OIM. Il progetto si chiama Aware Migrants. Non sanno, dice Di Giacomo senza mezzi termini, che «la Libia è inferno. I migranti vengono picchiati, rinchiusi nei campi, gli viene chiesto di pagare un riscatto, a volte lavorano ma non vengono pagati. Molti vorrebbero tornare indietro, ma  i trafficanti non vogliono che chi vede le reali condizioni della migrazione e soprattutto della travversata torni indietro per raccontarlo. Chi parte non sa, parla del Mediterraneo come di un fiume, the river, c'è una sorta di marketing incentrato sulla facilità della trasversata. Quando arrivano sulla spiaggia e vedono il mare e i gommoni con cui dovrebbero attraversarlo hanno paura e vorrebbero tornare indietro: ma non possono, una volta che hai pagato devi partire. Tanti hanno sul corpo i segni delle violenze, tagli su braccia e gambe, tanti hano raccontato di persone uccise perché non volevano più partire». Ecco perché la distinzione fra migranti economici e rifugiati è stata superata dalla storia: queste persone sono partite per motivi economici, tecnicamente non sono rifugiati e non hanno diritto alla protezione internazionale, però nel loro percorso nei fatti hanno subito una violazione dei loro diritti umani. E sono costretti a imbarcarsi. Questa è la realtà. «Non abbiamo il diritto di dire "non partite"», spiega Di Giacomo, tornando alla campagna sui social, «ma abbiamo il dovere di informare, perché tanti oggi ci dicono "non immaginavo"».
Una mano tesa Blessing l’ha trovata da suor Rita Giaretta, a Casa Rut, a Caserta. «Non volevo stare lì da loro. Altre donne, come quella che mi aveva tradita. Perché questa donna mi tende la mano? Cosa vuole da me? Io non avevo mai pensato prima che una donna e una donna cristiana potesse vendere un’altra donna: avevo paura. Non è facile avere fiducia quando sei stata tradita», racconta. Poi pian piano ha capito che Casa Rut «era una mano tesa vera, che non dà false speranze. Nelle parole delle suore di Casa Rut ho visto un messaggio, “siete capaci di cose belle, non siete condannate alla tristezza della morte, dentro di voi c’è la possibilità di una rinascita». Oggi è questo il messaggio che Blessing grida forte: «mi sto facendo voce per dire a tutte le ragazze trafficate che c’è una possibilità di rinascita. E di gioia».

Sara De Carli, 13 febbraio 2017
www.vita.it

11 ottobre 2017

"IO GETTO IL PANE"...... "E IO LO CERCO" - BAMBINI, DUE STORIE A CONFRONTO

Vi proponiamo le storie di Paola e Jakim, recitate dai bambini di una quinta elementare e dedicate a Raoul Follereau, maestro della solidarietà con i lebbrosi e con i poveri del mondo.

Paola: "Ciao, mi chiamo Paola. E tu?"
Jakim: "Io mi chiamo Jakim... piacere di conoscerti, Paola! Quanti anni hai?"
Paola: "Otto anni."
Jakim: "Come me, allora... Mi parli di te?"

Paola: "Io ho una bella casa, ho una cameretta tutta per me. Sono fortunata, sai? Il dottore abita nel mio palazzo e se ho la febbre è tutto per me. Faccio la terza elementare, vado in palestra a fare minibasket, ho molti giochi nella mia camera. La mamma dice che ne ho troppi e a volte me ne butta via un po'. Non sempre mi va di mangiare... il mio papà mi sgrida perché deve buttare via il pane che non mangio. E il tuo papà che dice se non mangi?"

Jakim: "Io non ho papà. Io veramente ho fame... e mangio di tutto... quando ce n'è. La mamma è spesso triste perché non mangio... perché non mi può portare da mangiare. Mentre tu non vuoi mangiare, io non posso mangiare. Ogni mattina, quando mi sveglio, non so se mangerò. Da poco ho cominciato a lavorare, ma con la mia paga dobbiamo pagare i debiti. Mia mamma ha potuto tirare avanti la famiglia grazie ad un prestito e non finiamo mai di pagarlo."


Paola: "Certe volte mi arrabbio con la mamma perché non mi compra le merendine che piacciono a me. Con papà ho fatto quest'estate i capricci: lui voleva andare in montagna mentre io volevo andare al mare in vacanza. A me non piace andare in vacanza in montagna! Che noia! Dimmi Jakim... a scuola come va?"

Jakim: "Da noi è tutto distrutto, la scuola è stata colpita con il cannone, non ci siamo potuti più andare. Era sempre più bello andare a scuola ... ora invece lavoro quattordici ore al giorno in una fabbrica di mattoni... e sono fortunato. I miei amici più grandi devono fare i soldati, mio cugino ha messo un piede su una mina e... poverino, l'ho visto mentre gridava e pregava... Mi hanno detto che era una mina italiana: ma perché avete costruito quelle mine? Ho visto tanti compagni morire. Anche il maestro è partito per la guerra. Chi ci insegnerà a
leggere e a scrivere ora? Sai che usa una pistola costruita proprio nella tua nazione?"

Paola: "Che brutta vita fate... perché sei nato proprio lì?"

Jakim: "Mica l'ho scelto io... è il caso, è come la lotteria: io sono nato in Africa, tu sei nata in Europa. Tu con i tuoi amici stai facendo i progetti per quando sarai grande, io invece... cosa posso sperare dal futuro?"

Paola e Jakim vivono destini molto diversi.
Paola non è stata particolarmente buona per meritare tante cose piacevoli.
Jakim non è stato particolarmente cattivo per meritare tanta sofferenza.
Sono solo nati in paesi diversi.

Per Paola questa è stata una fortuna, per Jakim è stata una sfortuna.

Nel mondo ci sarebbero risorse sufficienti per tutti gli abitanti del pianeta ma sono distribuite in maniera ingiusta e, quindi, i bambini come Paola hanno tante cose, molte più di quelle che servono per vivere, mentre quelli come Jakim non ne hanno a sufficienza neanche per sopravvivere.

Un bambino dell'America del Nord consuma come 422 bambini dell'Etiopia.

Un cane di una nazione ricca dispone di una quantità di cibo mediamente 17 volte superiore rispetto ad un bambino delle nazioni più povere del Terzo Mondo.
Ogni anno i nostri cani e gatti mangiano 4.000 tonnellate di prodotti a base di fiocchi d'avena, pesce, fegato.
Ogni giorno in Italia si sprecano 1.500 tonnellate di pane, pari a 6 miliardi di lire.
Ogni giorno 11.000 bambini muoiono per malnutrizione: un bambino ogni 8 secondi.

L'amore, la solidarietà umana e la ragione ci chiamano alla fratellanza, alla condivisione e alla giustizia. Noi bambini delle quinte classi di questa scuola elementare abbiamo inviato un messaggio di pace ai potenti della terra per chiedere di aiutare i poveri del mondo. Una persona famosa, Follereau, inviò un messaggio di pace molti anni fa ai due potenti della terra più importanti di allora. Leggiamola!


Lettera di Raoul Follereau
Al Presidente degli Stati Uniti
Al Presidente dell'Unione Sovietica

"Signori Presidenti,

ciò che vi domando è così poco... quasi niente... Datemi un aereo, ciascuno di Voi un aereo, uno dei vostri aerei da bombardamento. Perché ho appreso che ciascuno di questi velivoli costa all'incirca cinque miliardi di franchi... E ho calcolato che, col prezzo di questi due aerei di morte, si potrebbero risanare tutti i lebbrosi del mondo. Un aereo in meno in ogni aeroporto, ciò non modificherà l'equilibrio delle vostre forze... Voi potreste dormire tranquilli. Ma io, io dormirei più tranquillo. E dei milioni di povera gente dormirebbe finalmente... Non credete Voi che questa sia una bella occasione "per fare qualcosa"? Dieci milioni di povera gente non è tutta la miseria del mondo. Ma è già una grande miseria. Due bombardieri. E si avrebbero tutte le medicine per guarirli! Due aerei dai quali tutto ciò che voi possiate desiderare è che arrugginiscano nei loro capannoni senza mai uscire..."

Raoul Follereau
1° settembre 1954

 * * * * * * * *

Di fronte all'importanza delle questioni che abbiamo di fronte a volte ci sentiamo quasi inutili o insignificanti come individui singoli; eppure la vita di Raoul Follereau testimonia che si può anche partire da soli ed arrivare in tanti. E appare più che mai stringente la frase di George Bernard Shaw:

Il peggior peccato contro i nostri simili non è l'odio ma l'indifferenza; questa è l'essenza della disumanità.

web.peacelink.it

03 ottobre 2017

I PROFUMI DELL'AFRICA - Fiaba di Lau Ferrari

@silverless
Mancavano pochi giorni alla fine della scuola. L’aria calda dell’estate cominciava a farsi sentire e a Nick l’idea di trascorrere parte delle vacanze estive con suo padre in Africa lo convinceva sempre di più.
Nick aveva undici anni e quell’anno aveva espresso il desiderio di raggiungere quel luogo così lontano dato che il padre una volta ogni due anni praticava il safari.

Il volo durò parecchie ore dalla città di Liverpool da dove provenivano fino a raggiungere l’aeroporto di Nairobi.
Ad accoglierli ci furono alcuni amici di suo padre tra cui Artur, e suo figlio Fred, di circa l’età di Nick.

@silverless
Le due jeep con i fanaloni gialli sopra il tettuccio erano pronte per iniziare l’avventura.






La sera stessa mangiarono nel giardino del villaggio dove alloggiavano, mettendo per terra attorno al tavolo tante piccole candele accese al profumo di limone, che servivano ad allontanare i piccoli insetti fastidiosi tipici di quei luoghi così caldi.


Il profumo di pesce grigliato che i due genitori avevano cucinato e la leggera brezza della sera, faceva tintinnare il ceppo di conchiglie poste sopra la porta d’entrata della capanna, rendendo, così, ancora più suggestiva l’atmosfera africana.
“Prenderemo tutti i giorni la jeep per inoltrarci nella savana, vedrai Nick che spettacolo, abbiamo questo tragitto da seguire” lo informò Arthur, l’amico del padre estraendo dalla tasca dei suoi pantaloni una mappa.

Tutti furono entusiasti nel vedere quei percorsi evidenziati e numerati.
Il giorno seguente, infatti, attraversarono la savana, tra alture e strade sconnesse, raggiungendo il villaggio della tribù di Mugua.
Adocchiarono lungo il tragitto degli elefanti liberi che all’ombra di alcuni alberi mangiavano delle foglie di baobab e poco più in là, anche gruppi di zebre che si spostavano in branco nell’udire il motore dei loro furgoni.

Una volta arrivati al villaggio, furono accolti festosamente dai membri della tribù che erano adornati da voluminose collane indossate ai loro lunghi colli. Numerosi altri gioielli tra cui braccialetti ed orecchini di svariate misure, abbellivano le donne di questo popolo.
Parlavano in una lingua incomprensibile per i due ragazzi ma non per i loro genitori che tramite gesti e comunicando a tratti la loro lingua davano il benvenuto.

La popolazione dei Mugua sapevano del nostro arrivo, infatti il papà di Fred portava aiuti di vario genere, soprattutto alimentari, a questo povero villaggio.
Come alimentazione principale, infatti, avevano la coltivazione dei cereali, per questo motivo utilizzano il grano nei modi più svariati, usandolo perfino per alcune bevande.

Alcuni ragazzi della tribù fecero capire con dei segni, a Nick e Fred di seguirli.
“Andiamo con loro” disse entusiasto Fred rivolto all’amico.
“I nostri genitori staranno in pensiero se non gli comunichiamo dove stiamo andando ” gli rispose Nick.
” Non abbiamo tempo, vedi che ci stanno aspettando”.
Presi dalla frenesia i due ragazzi decisero di seguire il giovane popolo di Mugua inoltrandosi a piedi in piccole strade sterrate lasciando, così, alle loro spalle il villaggio.

Lungo il percorso avevano visto delle leonesse sdraiate sull’erba tranquille senza la minima voglia di alzarsi.
I ragazzi africani fischiarono e poco dopo sbucarono dai vari angoli della steppa alcune tigri.

Intimoriti i due giovani amici si domandarono in quale guaio si fossero cacciati, ma furono sbalorditi quando i ragazzini della tribù salirono sul dorso di questi felini incoraggiando anche Fred e Nick a fare altrettanto.

Era uno spettacolo vedere una decina di ragazzi africani e due europei sopra la rispettiva tigre che aggrappandosi attorno al possente collo, correvano alzando dietro di loro la polvere del terreno.
La luce del tramonto era di un rosso acceso, alcune giraffe indisturbate si abbeveravano ad un tranquillo stagno.

Finalmente Nick poteva vedere con i propri occhi questi colori e respirare quei profumi caldi.
Fino a quel momento li aveva solamente visti attraverso documentari televisivi o in qualche rivista di viaggi.

Arrivarono tutti in un villaggio poco lontano dal loro dove, all’improvviso, uscì da una tenda blu una bambina africana con tante treccine nei capelli, per abbracciare i suoi amici appena arrivati.
“Ciao io sono Kajumba, parlo poco la vostra lingua ma Kwaku mi aveva informata del vostro arrivo” disse la piccola rivolta ai nord europei, che erano contenti perché riuscivano finalmente a comunicare con qualcuno.

“Oggi è il giorno della luce e da tanti secoli crediamo che ogni cinque anni arriverà un buon segno per la nostra terra”.
I due amici ascoltarono curiosi, mentre gli altri bambini africani comunicavano qualcosa a Kajumba che subito dopo ci tradusse.
“Vi hanno condotto qui da me perché vogliono che vi faccia vedere il nostro tesoro in questo giorno speciale”.
Nick e Fred si guardarono cercando di capire qualcosa di più.
Poco dopo i ragazzi ed Kajumba arrivarono in un grande terreno arido dietro al villaggio .
I ragazzi africani cominciarono ad accovacciarsi per scavare con le loro mani la terra secca.
“Ma cosa stanno facendo” domandò Fred rivolto all’amico.
“So quanto te, restiamo a vedere cosa vogliono mostrarci”.
“Guarda !!” rispose Fred subito dopo.

Una spiga di grano appena fuoriuscita dal sbricioloso terreno, emanava una luce dorata, facendo sprigionare dalle sue spighette dei brillantini di colore giallo intenso che ricadevano nel suolo , illuminando a macchia d’olio la terra brulla.

I giovani africani cominciarono a ballare prendendosi per mano e disponendosi in un grande cerchio.
“Qui in Africa non abbiamo abbastanza cibo per nutrire gran parte della popolazione per l’intero anno” iniziò a spiegarci Kajumba.
“Come voi sapete le nostre terre sono aride e non producono molti frutti. Questa é una spiga magica, molto sacra alla nostra tribù”, proseguì la ragazza.

“Raccontaci la storia che vogliamo sapere anche noi”, le chiese Nick incuriosito da questa spiegazione.
“Tanti anni fa, un medico inglese arrivò qui a Mugua per portarci delle medicine che erano indispensabili durante la seconda guerra mondiale. I nostri nonni lo accolsero come membro della tribù per il prezioso aiuto che ci aveva offerto.

Poi, una sera, mentre stavano cenando facendo festa con suoni di tamburi e bonghi, il dottore chiamò mio nonno in disparte e gli donò questa spiga, dicendogli di coltivarla in un luogo protetto dove nessuno l’avrebbe potuta trovare, dato che era magica e possedeva dei grandi poteri”.

“Ma quali poteri ha questa spiga? domandò incuriosito Nick facendo sorridere gli altri ragazzi africani come se avessero capito la sua domanda.
” La tradizione dice che se un bambino di un popolo diverso dal nostro bacia un elemento sacro, in questo giorno speciale, questo porterà prosperità alla nostra terra, producendo frutti di vario genere.
Se questo elemento si tingerà di color oro prima di ricevere il bacio, porterà frutto altrimenti tutto sarà vano.
“Adesso è tutto chiaro” rispose Fred guardando sbalordito il suo amico Nick, che s’ inginocchiò all’altezza della spiga e la baciò.

La festa continuò per tutta la notte anche al villaggio di Mugua e finalmente NIck e Fred poterono riabbracciare i loro rispettivi padri, dopo quella lunga ma particolarissima giornata.

“Siamo felici di rivedervi, siamo stati in pensiero ” disse George, il padre di Nick, sorseggiando una tipica bevanda africana di latte con gustosissimi semi di papaya.

“Il nostro continente é povero di cibo”, cominciò a parlare il capo tribù appoggiato su un lungo bastone data l’età avanzata, davanti al suo popolo.
“In questo giorno speciale, l’elemento sacro, che per tutti noi è rappresentato dalla spiga magica, tingendosi di colore oro ha reso fertili i terreni. Questi riusciranno a nutrirci per alcuni anni fino all’arrivo di un’altra persona speciale che ripeterà questo incantesimo e oggi è successo con voi” continuò riferendosi a Nick che in quel momento mosso dalla commozione gli scese una lacrima sul volto.

“A voi che venite da un ricco continente, vi dico di non sprecare il cibo, dato che ne avete in abbondanza. Ricordatevi sempre che in un paese non troppo lontano da voi , ci sono dei vostri amici che non lo sprecano per non esserne privati in futuro” concluse il discorso il capo tribù applaudito da tutti.

Quella notte Nick e Fred faticarono ad addormentarsi perché ripensarono a tutto quello che era successo.
Nel mentre videro in lontananza, fuori dalla finestrella della loro capanna, una luce intensa provenire da quei aridi suoli.

“Ecco!!” disse Nick ad alta voce.







“É la magia della spiga che sta iniziando a nutrire la terra per questo meraviglioso popolo.”






Il profumo speziato nell’aria e la dolce fresca brezza accarezzava i loro visi prima che si addormentarono in un sereno sonno.

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