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31 marzo 2016

LA STORIA DEL BAMBINO "STREGONE" SALVATO DA UNA VOLONTARIA IN NIGERIA

La famiglia lo aveva abbandonato sulla strada denutrito e senza vestiti indosso. Per otto mesi Hope, 2 anni, ha vagato nel nulla.

Le immagini del volto emaciato e del corpo denutrito del bambino nigeriano di due anni, malfermo sulle sue gambe, che si avvicina a una donna con in mano una bottiglia d'acqua per poter bere, hanno fatto il giro del mondo. 
Quel bimbo ora ha un nome, Hope, speranza appunto. Non lo ha scelto casualmente Anja Ringgren Lovén, la cooperante danese che ha scattato quelle foto, nel villaggio di Uyo, nel sudest della Nigeria, e che ha salvato quel bambino nigeriano abbandonato dalla famiglia perché creduto uno stregone. 
Hope ha trascorso otto mesi della sua breve vita sulla strada, denutrito e quasi in fin di vita. Mangiava ciò che capitava, ha raccontato la volontaria che coopera nel continente africano con l'organizzazione non governativa African children's aid education and development foundation. 
"Migliaia di bambini vengono accusati di essere stregoni o streghe e li abbiamo visti torturati, morti o spaventati" ha scritto su Facebook, Anja Ringgren Lovén. "Queste immagini mostrano il motivo per cui mi batto. Perché ho venduto tutto quello che possiedo". 

Oggi Hope appare così, dopo le cure ricevute dallo staff medico ospedaliero, dove ha ricevuto un trattamento per eradicare i vermi che lo avevano attaccato. 
Il denaro raccolto, ha precisato Lovén, permetterà di dare a tutti quei bambini abbandonati un futuro, ma soprattutto una speranza di vita. I finanziamenti saranno infatti impiegati anche per edificare una sorta di clinica ospedale, salvando in questo modo moltissimi bambini abbandonati dalle loro famiglie. 



www.tpi.it

20 marzo 2016

UN VIOLINO NELLA METROPOLITANA


 La storia di Joshua Bell e la gente indaffarata

Era un freddo mattino nel gennaio 2007. Un uomo nella stazione della metropolitana di Washington DC iniziò a suonare il suo violino. Suonò pezzi di Bach e Schubert per circa 43 minuti. Durante questo lasso di tempo, poiché era l’ora di punta, passarono oltre 1.000 persone per la stazione, la maggior parte di loro dirette al lavoro.
Passarono tre minuti e un uomo di mezza età notò che c’era un musicista che suonava; rallentò il passo, si fermò per alcuni secondi, e poi si affrettò per riprendere il tempo perso. Un minuto dopo il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna lanciò il denaro nella cassettina e, senza neanche fermarsi, continuò a camminare.
Pochi minuti dopo qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma poi guardò l’orologio e ricominciò a camminare. Chiaramente era in ritardo per il lavoro.
Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni; mentre la madre insistette per proseguire, lui si fermò a ascoltare il violinista. Portato via di forza il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da altri bambini: tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 43 minuti che il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Alla fine racimolò 32 dollari. Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.

Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei musicisti più talentuosi del mondo. Aveva appena eseguito la Ciaccona, dalla Partita n.2 in Re Minore di Johann Sebastian Bach, non solo uno dei più grandi brani di musica mai scritti, ma una delle più grandi opere compiute dalla storia dell’uomo. E l’aveva suonata con un violino Stradivari del 1713 del valore di 4 milioni di dollari. Alcuni giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston, dove i biglietti costavano dai 100 ai 200 dollari l’uno.

Questa è una storia vera. Joshua Bell era in incognito nella stazione della metro, il tutto organizzato dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone.
L’esperimento consisteva nel capire se in un ambiente comune ad un’ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?

Una delle possibili conclusioni di questa esperienza potrebbe essere: se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?

www.matteogracis.it

17 marzo 2016

SIAMO SEMPRE LO STRANIERO DI QUALCUN ALTRO (Tahar Ben Jelloun)

Visual Artist : Dina Bova, Tel Aviv, Israel
La Storia: Il razzista al piano di sopra

C’era una volta un padre, una madre e un bimbo.
I tre erano molto felici, quel giorno.
Il perché lo dico alla fine.
Questa famiglia abitava in un palazzo di ben otto piani.
I nostri avevano la sfortuna di abitare al piano terra.
E, soprattutto, quella di essere nati Rom.
Ma non quella di essere Rom in generale.
La sventura era di essere nati Rom e abitare al pianterreno di quel palazzo.
Una sera, il bimbo aveva chiesto al padre perché i vicini del piano di sopra li trattavano sempre male.
“Perché dicono che siamo sporchi e che puzziamo”, aveva risposto il genitore.
“Ma bisogna capirli, anche loro hanno dei problemi…” aveva aggiunto poi.
“Quali?” aveva domandato il piccolo.
“Vedi, loro sono extracomunitari e i vicini che abitano al piano sopra il loro li accusano di essere nel palazzo solo per rubare e vendere droga.”
“E chi sono questi qua?”
“Sono persone come noi e anche loro non se la passano così bene…”
“Perché?”
“Perché sono Palestinesi e i signori che vivono al piano successivo, gli Israeliani, sostengono che il loro intento sia quello di occupare la loro casa…”
“Davvero?”
“Certo, ma non pensare che gli Israeliani dormano sonni tranquilli. Al piano sopra il loro abitano gli Anti Sionisti, che considerano i primi come gente avida e attaccata solo ai soldi.”
“Che brutto palazzo, papà…”
“Eh, ma non hai sentito ancora nulla. Sopra gli Anti Sionisti, al sesto piano, ci sono i Padani.”
“Chi sono?”
“Sono gente del nord Italia.”
“Sono Italiani, allora?”
“No, loro si definiscono Padani e ritengono inferiori tutti quelli che abitano di sotto, nessuno escluso.”
“Chi abita sopra di loro?”
“Questa è bella, figlio mio: gli Svizzeri, ma non Svizzeri qualunque, Svizzeri italiani. E gli Svizzeri Italiani ce l’hanno con i Padani perché a loro avviso gli rubano il lavoro.”
“Caspita. E chi vive all’ultimo piano?”
“Nessuno lo sa, caro. E, vista la natura del condominio, chi ha il coraggio di andare a bussare a quella porta?”
Come avrete capito, la vita in un tale palazzo per la famiglia dei Rom non era affatto facile, ma alla fine una luce apparve in fondo al tunnel.
Per loro fu un gran giorno, quello.
I tre lo chiamarono l’ora della rivincita.
Niente di straordinario, a dir la verità.
Avevano semplicemente saputo che una famiglia aveva acquistato il seminterrato di sotto.
Che gioia fu sapere di avere anche loro qualcuno con cui sfogarsi…

www.romanzieracconti.it 
di Alessandro Ghebreigziabiher

Questo testo è stato inserito nel libro Il dono della diversità, Tempesta Editore.


09 marzo 2016

UNA DIGA ITALIANA MINACCIA INDIGENI ETIOPI E KENIOTI

Una diga italiana minaccia indigeni etiopi e kenioti. “Non possiamo mangiare l’elettricità”

AMBIENTE  Pubblicato il 22 OTT 2015 di  MARA BUDGEN

La diga Gibe III sul fiume Omo in Etiopia è una catastrofe ambientale e sociale finanziata con le tasse degli italiani e costruita dall'azienda milanese Salini Costruttori.

Gibe III, ormai i cui lavori di costruzione sono ormai agli sgoccioli, è una delle dighe più grandi dell’Africa. Come Gibe I e Gibe II, le dighe che l’hanno preceduta, interrompe il corso del fiume Omo in Etiopia, che rappresenta il 90 per cento degli affluenti del lago Turkana in Kenya, il lago in una zona desertica più esteso del mondo. 260mila indigeni di 17 tribù vivono nella bassa valle dell’Omo, la parte meridionale del fiume, e attorno al lago Turkana, sopravvivendo grazie a inondazioni stagionali. La diga da più di un milione e mezzo di euro, però, devia le acque che li sostengono per destinarle all’irrigazione di 445mila ettari di monocolture, principalmente canna da zucchero, e l’esportazione di energia idroelettrica.

























Sugli effetti di Gibe III non è mai stato condotto nessuno studio di impatto ambientale e sociale esaustivo e la costruzione della diga è stata affidata all’azienda di Milano Salini Costruttori senza gara d’appalto, violando le leggi dello stato etiope. Un programma di sfratti sistematici noto come “villagizzazione” ha fatto spazio per le piantagioni commerciali irrigate grazie alla diga, supportato dal programma per la Promozione dei Servizi di Base (PBS) finanziato dal Dag (Development assistance group). Quest’ultimo riunisce 26 istituzioni tra cui le agenzie per lo sviluppo dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Regno Unito (sostenute dalle tasse dei loro cittadini), e la Banca mondiale.

 

La diga sta causando danni irreversibili a due siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco, cinque parchi nazionali e l’ultima foresta pluviale in una zona desertica dell’Africa. Il Comitato per il patrimonio dell’umanità ha raccomandato che il lago Turkana, il cui livello dell’acqua potrebbe calare di ben 22 metri, venga inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, che include siti come Palmira in Siria.

La diga Gibe III sul fiume Omo in Etiopia è una catastrofe ambientale e sociale finanziata con le tasse degli italiani e costruita dall'azienda milanese Salini Costruttori.
Gibe III, i cui lavori di costruzione sono ormai agli sgoccioli, è una delle dighe più grandi dell’Africa. Come Gibe I e Gibe II, le dighe che l’hanno preceduta, interrompe il corso del fiume Omo in Etiopia, che rappresenta il 90 per cento degli affluenti del lago Turkana in Kenya, il lago in una zona desertica più esteso del mondo. 260mila indigeni di 17 tribù vivono nella bassa valle dell’Omo, la parte meridionale del fiume, e attorno al lago Turkana, sopravvivendo grazie a inondazioni stagionali. La diga da più di un milione e mezzo di euro, però, devia le acque che li sostengono per destinarle all’irrigazione di 445mila ettari di monocolture, principalmente canna da zucchero, e l’esportazione di energia idroelettrica.

Sugli effetti di Gibe III non è mai stato condotto nessuno studio di impatto ambientale e sociale esaustivo e la costruzione della diga è stata affidata all’azienda di Milano Salini Costruttori senza gara d’appalto, violando le leggi dello stato etiope. Un programma di sfratti sistematici noto come “villaggizzazione” ha fatto spazio per le piantagioni commerciali irrigate grazie alla diga, supportato dal programma per la Promozione dei Servizi di Base (PBS) finanziato dal Dag (Development assistance group). Quest’ultimo riunisce 26 istituzioni tra cui le agenzie per lo sviluppo dell’Italia, dell’Unione europea, degli Stati Uniti e del Regno Unito (sostenute dalle tasse dei loro cittadini), e la Banca mondiale.
 
La diga sta causando danni irreversibili a due siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco, cinque parchi nazionali e l’ultima foresta pluviale in una zona desertica dell’Africa. Il Comitato per il patrimonio dell’umanità ha raccomandato che il lago Turkana, il cui livello dell’acqua potrebbe calare di ben 22 metri, venga inserito nella lista dei patrimoni dell’umanità in pericolo, che include siti come Palmira in Siria.

La diga è un disastro ambientale, culturale e sociale. I popoli indigeni della
bassa valle dell’Omo e del lago Turkana sono piccoli agricoltori, cacciatori-raccoglitori e pastori. L’interruzione nel ciclo naturale di inondazioni dell’Omo e lo svuotamento del lago Turkana renderà impossibile per loro coltivare e allevare bestiame. Nell’assenza di soluzioni alternative proposte dal governo etiope o quello keniota molti temono che, senza cibo e un posto dove andare, queste popolazioni saranno costrette a combattersi l’un l’altra per sopravvivere. Come precisa un membro del governo locale della contea Turkana in Kenya “non possiamo mangiare l’elettricità. Abbiamo bisogno di cibo e di reddito”.
© Hans Silvester
Nonostante il Dag fosse già stato accusato in precedenza per aver sostenuto un programma di villaggizzazione nella regione Gambela dell’Etiopia a causa di violazioni di diritti umani, anche gli abitanti della bassa valle dell’Omo e il lago Tukana hanno subito un trattamento degradante. L’esercito etiope ha sfrattato violentemente, stuprato, imprigionato arbitrariamente e ucciso molti indigeni. Inoltre, essi non hanno potuto esercitare il loro diritto di consenso libero e informato sancito dall’articolo 10 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni unite.
 
Le foreste e le savane della valle dell’Omo (sinistra) trasformate in piantagioni (destra) © Survival
Indagini condotte dal Wwf dimostrano che le dighe esistenti nel mondo hanno causato la distruzione di zone umide, il declino delle specie di acqua dolce e lo spostamento forzato di milioni di persone. Secondo International rivers queste persone non godono dei benefici come energia idrica e irrigazione promessi da chi costruisce le dighe. Mentre è troppo tardi per bloccare Gibe III, bisogna fermare le violazioni di diritti umani in corso in queste regioni, trovare soluzioni perché le loro popolazioni indigene possano sostenersi, e pretendere che le nostre tasse non vengano spese dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo per finanziare grandi opere che radono al suolo comunità locali e patrimoni naturali.

www.lifegate.it
Pubblicato il 22 OTT 2015 di  MARA BUDGEN


04 marzo 2016

IL DRAMMA DELLE FAMIGLIE NEL CAMPO DI IDOMENI



La tortuosa strada che attraversa i campi di grano nei pressi del villaggio greco di Idomeni è piena di persone che trasportano grandi borse sulle spalle e bambini in braccio. 

Alex Yallop/MSF 
Il flusso di arrivi continua giorno e notte, ma non più di una media di 150 persone al giorno (solo i siriani e gli iracheni che hanno la fortuna di avere un passaporto o una carta d'identità dal loro paese d'origine) può continuare il cammino da questo luogo e attraversare il confine con la Macedonia (FYROM), proseguendo verso l'Europa occidentale e settentrionale. Pochi se ne stanno andando, ma di più, molti di più continuano ad arrivare, solo per finire bloccati in quella che sta diventando un’insostenibile situazione umanitaria. Oggi, in un campo di transito che ha la capacità di ospitare 1500 persone, ce ne sono più di 11.000 stipate in trappola senza informazioni, in un mix di ansia e delusione.

Tra quelli bloccati al gelo del campo di Idomeni, molte sono famiglie. 

                                                     Alex Yallop/MSF


Piman, che lavorava come insegnante d’inglese prima di lasciare la Siria, sta viaggiando da ormai due mesi. “Sono qui con la mia famiglia, dormiamo in queste piccole tende, non avremmo mai pensato di trovarci in una situazione orribile. Quando abbiamo lasciato la nostra città, i miei figli volevano portare i loro giocattoli e i libri ma io dicevo loro di non preoccuparsi, che avremmo preso giochi nuovi nella nostra nuova casa. Adesso continuano a chiedermi, dov’è la nostra nuova casa?”.

Nel campo di Idomeni la situazione è estremamente caotica.

Daniela, un’infermiera MSF a Idomeni, riassume così la situazione: “Ci sono confusione, stress e mancanza di informazioni affidabili. C’è un crescente sentimento di rabbia. Molti rifugiati stanno aspettando qui da oltre dieci giorni. Le persone sono davvero esauste”.

Nella clinica MSF che opera a Idomeni, arrivano costantemente intere famiglie, donne incinte e bambini, così come molte persone disabili e anziani che soffrono di malattie croniche.

Queste persone, bambini e anziani inclusi, sono costrette a dormire all’addiaccio, con solo un sacco a pelo a tenerle calde. Le grandi tende messe a disposizione da MSF sono piene da giorni e centinaia di tende più piccole sono sparse ovunque, anche accanto ai binari della ferrovia. 

Omar, un rifugiato palestinese che arriva dal campo siriano di Homs, è esausto: “Tutto questo mi rende molto nervoso, non so cosa succederà. L’attesa mi uccide. Ci sentiamo ignorati”.
 “Sono qui da una settimana e non ho idea di quanto ancora dovrò rimanere. Il confine è chiuso e non ci permettono di passare. Il campo è invivibile. Orribile. Voglio trovare un modo sicuro di proseguire, voglio trovare un posto dove crescere mio figlio. Aiutateci a trovare un percorso sicuro”, ripete Mustafa, rifugiato dal nord della Siria che è arrivato a Idomeni con la moglie Zuzan e due giovani cugini. È una delle persone che sta dormendo su un letto. Non lo possiamo certo definire fortunato ma altre famiglie passano la notte all’esterno, al freddo e nel fango.

Alex Yallop/MSF
Intere famiglie si stringono intorno a un fuoco di fortuna per stare al caldo, mentre aspettano che trascorra la notte. Nello stesso momento, in un ospedale vicino al campo, Rula, donna di 30 anni da Aleppo, dà alla luce il suo secondo figlio, chiamato Abdulrahmane. È arrivata a Idomeni incinta, con il marito Fahad e il figlio di un anno, Oman, ma le sue acque si sono rotte mentre era nella clinica MSF e il team l’ha fatta trasferire all’ospedale.

Dal 27 febbraio al 1 marzo, le squadre mediche di MSF hanno condotto 756 visite. Le principali patologie riguardano le vie respiratorie e infezioni gastrointestinali (in relazione alle inadeguate condizioni dei servizi igienici). La maggior parte dei pazienti sono donne e bambini al di sotto dei cinque anni. 
MSF sta fornendo ripari a oltre 4.000 persone e 34.000 pasti al giorno.

www.medicisenzafrontiere.it