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28 agosto 2015

PREGHIERA LAICA PER I MIGRANTI - Erri De Luca

Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell'isola
e del mondo, sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale,
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca
dei naufraghi salvati.

Mare nostro che non sei nei cieli,
all'alba sei colore del frumento
al tramonto dell'uva e di vendemmia.
ti abbiamo seminato di annegati più di
qualunque età delle tempeste.

Mare Nostro che non sei nei cieli,
tu sei più giusto della terraferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, abbraccio, bacio in fronte,
madre, padre prima di partire.



26 agosto 2015

IMMAGINA (Quello che le fotografie degli sbarchi non dicono...)

© Milos Bikanski/Getty Images
Compito delle vacanze.
Chiudi gli occhi e immagina.
Chiudili davvero, senza barare.

Ora apri la mano e lascia andare il tuo smartphone, tablet, pc. Non ce l'hai. Non ce l'hai mai avuto.

Immagina di non poter accedere a internet, non solo per 5 minuti perché la connessione è scadente....MAI.

E quindi non sai che accade là fuori. Dove va il mondo, che succede. Non sai come si vive negli altri paesi. Non sai se ci sono guerre, pace, se la gente lavora, se la vita è più facile. Credi di sì, ma non lo puoi sapere.

Eh già, perché devi immaginare di non avere nemmeno la televisione, di non poter leggere i quotidiani, di non aver accesso alla cultura.
Non perché non ci sono libri attorno a te, ma perché non sai leggere. E non è stata una tua scelta.

Immagina di esserti svegliato alle 5 del mattino e di essere stato in piedi 2 ore prima che un camion si decidesse a caricarti nel cassone, tu con altre 60 persone. Vai al lavoro. Spacchi le pietre, grandi massi... fino a ridurle grandi come un sassolino.
Chissà che belle strade di cemento costruiranno non sai dove. Le spacchi con un martelletto consunto, una a una, dieci ore al giorno, sotto al sole cocente dei 50 gradi africani. Guadagni "la giornata", pochi spicci. E torni a casa la sera sperando che quel camion domani ripassi e ti dia lavoro ancora.

Immagina di avere visto tua madre morire. Di un male incurabile che se l'è portata via poco alla volta. Forse, hai pensato, da qualche altra parte l'avrebbero curata. Ma l'unica cosa che sei riuscito a fare è rinunciare a una settimana di pane per te e tutta la tua famiglia per riuscire a pagarle il "native doctor". Che non è servito a nulla.

Immagina di aver dormito per mesi nella stessa stanza con tua madre che si consumava poco a poco, che urlava nella notte di dolore.
E tu non avevi nemmeno i soldi per comprarle degli antidolorifici.

Ora immagina di dover nasconderti per pregare il Dio che tuo padre ti ha insegnato. Immagina di doverti vergognare nel celebrare il Natale o il Ramadan. Immagina di dover dire ai tuoi figli che quelle preghiere che insegni loro a recitare sono un segreto da non rivelare a nessuno.

Immagina di guardare i tuoi figli svegliarsi ogni mattina alle 5, caricarsi pesanti secchi sulla testa e fare chilometri di cammino per andare a prendere l'acqua. Staranno in fila per ore aspettando il loro turno. Perché la gente è tanta. Perché la pompa dell'acqua funziona solo 2 volte alla settimana.

Immagina di dover scegliere solo uno dei tuoi figli per l'iscrizione a scuola. Solo uno. Non perché è una tua scelta. Ma perché non te la puoi permettere l'iscrizione per tutti. Chi scegli? Il più grande? Il maschio? Chi avrà più possibilità di riuscire a fare qualcosa?
Immagina di essere costretto a mandare gli altri a lavorare. A vendere gli accendini per strada. A spaccare le pietre pure loro.
Immagina di essere svegliato nel cuore della notte da un boato fragoroso che fa tremare le mura di latta della tua baracca.

Immagina di sentire spari. Soldati o ribelli che irrompono con un calcio nella tua stanza e nella tua vita. Ti rubano le poche cose che hai, forse ti spareranno addosso o violenteranno tua moglie davanti ai tuoi occhi.

Immagina ora che a tuo figlio più piccolo venga la febbre. La febbre alta. Immagina di non poterlo portare in ospedale. Lo vedi tremare davanti a te e non puoi fare nulla. Te lo carichi sulla schiena e fai un'ora di strada a piedi per arrivare in ospedale. Immagina che lì ti venga detto che il medico non c'è, che l'ospedale di notte non funziona. E allora provi in un'altra clinica, e poi in un'altra. Ma la risposta è sempre la stessa. Niente medico, niente medicine.

Immagina di tornare a casa e di dover tenere la mano di tua moglie che grida nella notte la sua disperazione per un figlio guardato morire di una semplice malaria.

Ora apri gli occhi. Riappropriati della tua vita. Del tuo smartphone.
Non temere, tutto questo a te non accadrà mai. Ma non per questo significa che non sia vero. Che non stia accadendo proprio in questo momento in un dove imprecisato a un qualcuno sconosciuto.

Perciò ti prego… immagina ogni tanto… fermati a riflettere prima di dire la tua opinione o di scrivere il tuo prossimo commento sui social network riguardo agli immigrati che sbarcano sulle coste italiane.

Poi potrai dire e fare ciò che vuoi, ma prima chiudi gli occhi e immagina anche solo una di queste cose.

Bisognerebbe sempre riflettere sulle parole. Sono un'arma molto potente. La più grande. Si può fare la guerra anche solo con le parole.

Immagina. Pensa di essere uno di loro. Forse scapperesti anche tu.

Sara, infermiera di EMERGENCY. E tutti noi.

da Emergency, fonte Forumpace Trentino


24 agosto 2015

ACQUA "PRIVATA" IN AFRICA: LA LOTTA DELLA NIGERIA CONTRO LA BANCA MONDIALE


Il nuovo colonialismo in Africa non sta solo derubando il continente delle terre, si sta anche impadronendo delle risorse primarie, tra cui l’acqua. I fondi della Banca Mondiale sono legati a doppio filo alle privatizzazioni e molti governi ormai, corrotti o con il cappio al collo, condannano le popolazioni a una nuova schiavitù.


Non bastavano il Mali, il Sud Africa (6 Corporation hanno contratti), il Ghana (dove dopo la privatizzazione il costo dell’acqua è aumentato del 95% e un terzo della popolazione non ha accesso ad acqua pulita), la Namibia. Ora la Banca Mondiale preme sulla Nigeria per permettere a una partnership pubblico-privata di mantenere e ampliare la gestione dell’erogazione dell’acqua aumentandone i costi. Ma la popolazione si sta opponendo con tutte le sue forze. La capitale Lagos, che conta 21 milioni di abitanti, è il “boccone” che le Corporations si sono servite in tavola e bramano il resto della preda. «Da decenni la Banca Mondiale sta facendo di tutto per impedire lo sviluppo di un sistema pubblico di gestione – spiega Akinbode Oluwafemi, responsabile per i diritti ambientali di Friends of the Earth Nigeria – tanto che oggi nove persone su dieci non hanno accesso ad acqua potabile. Sappiamo bene quali interessi si nascondono dietro la trasformazione dell’acqua in un bene di mercato. Nel mio villaggio ho realizzato una pompa che permette ai vicini di avere libero accesso a questa preziosa risorsa e per questo ho ricevuto minacce dalle società che invece l’acqua la vogliono vendere a peso d’oro, poiché stavo mettendo a rischio i loro profitti. Ma non farò retromarcia. La Banca Mondiale ora sta tentando di convincere le comunità anche al di fuori della capitale che la privatizzazione dell’acqua è la risposta ai problemi della gente, se ne infischia dei processi democratici. Abbiamo ospitato a Lagos in questi giorni attivisti ed esperti per il Lagos Water Summit, co-promosso insieme a Corporate Accountability International. Ma abbiamo bisogno di far sentire la nostra voce anche oltre confine, anche nel resto del mondo. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, per questo chiediamo ad ogni cittadini in ogni nazione di scrivere alla Banca Mondiale sollecitando lo stop al processo di privatizzazione (qui trovate la lettera da mandare e le istruzioni). Il nostro movimento vuole crescere nei prossimo mesi, ma abbiamo bisogno che il nostro problema diventi il problema di tutti». E Akinbode Oluwafemi sa bene come sia in corso non solo in Africa (con effetti assolutamente devastanti), ma anche negli altri paesi del mondo il processo di privatizzazione dell’acqua. In Italia la situazione non è affatto migliore. «C’è un preciso piano attraverso il quale il Governo intende rilanciare con forza il processo di privatizzazione e finanziarizzazione dei beni comuni ma ciò avviene in maniera molto più subdola degli anni passati – ha spiegato Paolo Carsetti, del Forum italiano dei Movimenti per l’acqua-  Tutti i provvedimenti elencati non esplicitano un attacco diretto all’acqua o ai servizi pubblici locali come fatto nel 2009 dal governo Berlusconi, l’attacco è strisciante, non si pronuncia la parola privatizzazione perchè è un tema su cui si è già registrato una sconfitta epocale ma la sostanza è la stessa. Il governo si muove dietro la propaganda che prova a descrivere uno scenario come quello della necessità di riduzione della spesa pubblica anche attraverso la razionalizzazione delle cosiddette partecipate o ex municipalizzate che sarebbero coacervo di sprechi, clientele e malapolitica. È la retorica che sta dietro a questa propaganda, con la quale si prova a raggiungere il medesimo obiettivo del governo Berlusconi: cedere al mercato la gestione dei servizi pubblici e dei beni connessi».

«L’acqua è un bene comune e tale deve rimanere - aggiunge Shayda Naficy, direttore della Campagna Internazionale per l’Acqua di Corporate Accountability International (CAI) – quando se ne impadroniscono i privati, ecco che nascono fortissime disparità nell’accesso e nei costi».  Eppure, malgrado la Banca Mondiale continui a premere per la privatizzazione dell’acqua soprattutto nei paesi del Terzo Mondo, i dati rivelano che un’elevata percentuale dei suoi progetti è in condizioni di distress. Il database dell’ente internazionale documenta un 34% di fallimenti.

Nel 2013 il CAI ha inviato una lettera aperta alla Banca Mondiale per chiedere lo stop al sostegno dato ai progetti di privatizzazione, ma nulla è cambiato.



Ma come si può dimenticare che l’accesso e il diritto all’acqua pulita sono la base della vita stessa?

















www.ilcambiamento.it

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POI NON SCANDALIZZIAMOCI QUANDO VEDIAMO LE FOTO DEI BAMBINI CHE BEVONO L'ACQUA SPORCA DELLE POZZANGHERE...

21 agosto 2015

TOMMIE, JOHN, PETER E LE OLIMPIADI MESSICO 1968

Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio. Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi.
Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’Olimpiade messicana.
Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19”83 (primo a scendere sotto i 20”) davanti a Norman (20’06”) e Carlos (20’10”). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri. Bisogna sapere che nel ‘67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’Ophr, Olympic program for human rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.
Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni, è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem.
Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa.
Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato).
Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman. Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro.
I due americani furono subito espulsi dai Giochi e, in patria, minacciati di morte, spiati dall’Fbi, boicottati nella ricerca dei posti di lavoro. Norman non fu espulso, ma l’Australia gliela fece pagare salata. "Io penso che tutti gli uomini nascano con gli stessi diritti", disse lui in quei giorni. Era una verità e insieme uno scandalo, "la politica che entra nello sport" (già, perché nel 1936 a Berlino cos’era se non un immenso spot per Hitler?). Peter Norman è lo sprinter migliore che l‘Australia abbia mai avuto: il suo 20"06 di Messico ’68 gli avrebbe consentito di vincere l’oro a Sydney nel 2000, detto di sfuggita. La federazione australiana non lo convocò per Monaco 1972, anche se aveva superato tredici volte il limite di qualificazione dei 200 e cinque volte quello dei 100.
Ma da lui l’Australia non voleva farsi rappresentare. Non ci furono movimenti d’opinione per Peter Norman, era semplicemente cancellato. Si guadagnò da vivere facendo l’insegnante e rimanendo vicino al movimento sindacale. Non fu coinvolto nell’organizzazione dell’Olimpiade australiana né tantomeno invitato allo stadio. Cardiopatico, con tre bypass, stempiato e bianco di baffi e capelli, morì d’infarto il 3 ottobre 2006.
Smith e Carlos non avevano mai più rivisto Norman, ognuno la sua vita, i suoi problemi.
Quando sanno che Norman è morto, vanno al funerale e portano la sua bara, sulle note di "Chariots of fire". Dice Smith: "Peter non ha girato gli occhi dall’altra parte, e un bianco poteva anche farlo". Dice Smith alla famiglia di Norman: "Ragazzi, avete perso un grande soldato. Per me era come un fratello". E tornano negli Usa. Il 9 ottobre, giorno del funerale di Norman, da allora per la federatletica americana è il Norman’s Day. ***Mentre il boicottaggio dell’Australia continua, a livello ufficiale. Uno dei nipoti, Matt, ha girato un filmdocumentario ("Salute") sulla vita di Norman, molto apprezzato dal pubblico.

Ho raccontato questa storia perché da qualche parte ci dev’essere uno spazio, non necessariamente uno stadio, dove l’etica incontra l’epica, e si stringono la mano, forse s’abbracciano (....). L’epica, vai a sapere se deriva da epos o da epo, ma questi sono affari dell’etica (...). Non l’ho raccontata per dire che il mondo è piccolo, ma per dire che il cuore è grande. L’ho raccontata perché in quel posto, da qualche parte, Norman sta organizzando una corsa sui 200 (...).

Gianni Mura

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***A dire il vero, nel 2012 il Parlamento Australiano si è scusato ufficialmente. Ecco il testo :

In 2012, the Australian Parliament decided to officially apologise for doing wrong to Peter Norman (via).

The Australian Parliament's apology:
"The order of the day having been read for the resumption of the debate on the motion of Dr Leigh - That this House:

(1) recognises the extraordinary athletic achievements of the late Peter Norman, who won the silver medal in the 200 metres sprint running event at the 1968 Mexico City Olympics, in a time of 20.06 seconds, which still stands as the Australian record;
(2) acknowledges the bravery of Peter Norman in donning an Olympic Project for Human Rights badge on the podium, in solidarity with African-American athletes Tommie Smith and John Carlos, who gave the ‘black power’ salute;
(3) apologises to Peter Norman for the wrong done by Australia in failing to send him to the 1972 Munich Olympics, despite repeatedly qualifying; and
(4) belatedly recognises the powerful role that Peter Norman played in furthering racial equality - Debate resumed by Dr Leigh who moved, by leave, as an amendment - Omit paragraph (3), substitute:

(3) apologises to Peter Norman for the treatment he received upon his return to Australia, and the failure to fully recognise his inspirational role before his untimely death in 2006; and Debate continued." (literally via)

18 agosto 2015

GURPREET, GLI OCCHI TRISTI DI UN INGEGNERE TRASFORMATO IN SCHIAVO

Parla lentamente, Singh Gurpreet, soppesa ogni parola. Un turbante blu gli avvolge i capelli, una lunga barba gli copre il viso. Un viso bello, dai tratti somatici definiti e dagli occhi penetranti. Ha 30 anni, Gurpreet; una moglie in India e un figlio di un anno che non ha mai visto. Come tutti gli uomini sikh, il suo nome è preceduto dalla parola Singh che vuol dire leone, mentre i nomi femminili sono accompagnati dal termine Kaur che significa principessa. Il nome Gurpreet è invece di fantasia; ha paura di essere riconosciuto dal padrone che, nel migliore dei casi, potrebbe licenziarlo.
Il tono pacato della voce, i modi eleganti. Tutto in lui è raffinato.

“Io sono andato in scuole private inglesi e poi ho studiato al college in India, dove ho seguito corsi per diventare ingegnere. I miei genitori hanno fatto tanto per mandarmi a studiare, ma un giorno la mia vita è cambiata. È arrivato un parente dall’Italia e mi ha detto di lasciare tutto e di partire. Diceva che qui sarei diventato ricco”. Si ferma e sul suo volto cala un’ombra. “Eravamo riusciti a comprare un trattore, era blu, era bello: lo trattavamo come un bambino. Per comprarlo i miei genitori avevano fatto tanti sacrifici, avevano venduto anche le bufale. Io per comprare il biglietto l’ho dovuto vendere insieme ai gioielli che avevamo. I soldi comunque non sono bastati e ci siamo indebitati. Una volta in Italia il lavoro però non c’era e dopo due anni al nord sono arrivato a Sabaudia, a Bella Farnia. Qui lavoro in una piantagione”.


Prende il cellulare, Gurpreet, e ci mostra una foto che lo ritrae mentre, inginocchiato, raccoglie i ravanelli. “Vedete io lavoro così, tutto il giorno sempre in ginocchio; posso fare solo mezz’ora di pausa. La mia paga dipende da quanti ravanelli riesco a raccogliere. Funziona così: ogni 300 mazzi da 15 ravanelli mi pagano 2 euro e 90. L’anno scorso abbiamo chiesto al padrone di alzarci la paga. Lui prima ci pagava 3 euro e dieci, ma dopo le nostre richieste ha abbassato il compenso a 2 euro e 90”.

Nessuno a casa sua in India conosce la sua situazione, neanche la moglie. Nelle persone come Gurpreet è forte il senso di vergogna. I genitori hanno venduto tutto per dargli una vita migliore, non può deluderli raccontando loro la verità. Così nasce la catena dello sfruttamento: chi viene sfruttato in Italia deve anche incitare i giovani parenti a partire come ha fatto lui. Se non lo facesse desterebbe forti sospetti.
Quando ci racconta la sua storia, Gurpreet non sembra mai arrabbiato. Per lui, alla fine dei conti, il padrone resta comunque buono e sembra giustificare i suoi atteggiamenti da schiavista. 
Diversamente da altri braccianti agricoli indiani, in lui però non c’è rassegnazione.


“Voglio imparare bene la lingua italiana e dopo voglio cambiare lavoro. Intanto cerco di aiutare la mia famiglia in India e soprattutto mio padre che sta male. Quando sono triste e piango penso a una canzone indiana che dice: ricordo tutti coloro che mi hanno fatto del bene”. In questo giovane dallo sguardo triste e intelligente non c’è spazio per il rancore verso il suo parente indiano che lo ha trascinato qui, né astio nei confronti del suo “buon” padrone.

di Nicole Di Giulio e Antonella Spinelli
www.ansa.it

16 agosto 2015

LA GENTILEZZA E' RIVOLUZIONARIA




La gentilezza è rivoluzionaria, soprattutto al giorno d’oggi. Lo dimostra il clamore suscitato in Germania da poche, semplici parole pronunciate da un autista di autobus all’indirizzo di un gruppo di migranti appena arrivati nel Paese. Mentre stava guidando tra le tranquille strade di Erlangen, in Baviera, Sven Latteyer si è fermato per fare un annuncio spontaneo ai suoi passeggeri, tra cui c’erano una quindicina di migranti provenienti dall’Africa. 

“Scusate signore e signori da tutto il mondo che siete su questo autobus, voglio dire qualcosa. Voglio dire benvenuti. Benvenuti in Germania, benvenuti nel mio Paese. Vi auguro una buona giornata”. 
Un concetto così semplice eppure così raro, a giudicare dalla mole di condivisioni che ha avuto questa storia, partita dal quotidiano locale Nuernberger Nachrichten. 

Il discorso – ha riferito un testimone – è stato accolto con applausi, risate e sguardi piacevolmente sorpresi, anche da parte dei passeggeri tedeschi. A una donna di origini africane sarebbe anche scappata una lacrima di commozione. La notizia è rimbalzata sui social, generando un’onda di commenti positivi. “Urrà per l’autista!”, ha twittato un utente, aggiungendo l’emoticon di un cuore. “Poco tempo fa notavo che nessuno dice ‘Benvenuti in Germania’; sono felice di vedere che mi sbagliavo”, è il commento di un altro. Dalla stampa locale, la notizia è arrivata alla tv nazionale, e via così fino alla Bbc. 

Il signor Latteyer ha poi spiegato che il discorso gli è venuto pensando a suo cognato, che negli anni ’90 scappò dalla guerra in Kosovo, e a suo padre, che rimase ferito durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la prima metà del 2015, hanno chiesto asilo in Germania almeno 180mila persone, il doppio rispetto allo scorso anno. In alcune zone del Paese sono aumentati gli attacchi agli alloggi riservati ai migranti ad opera di gruppi di estrema destra.

www.huffingtonpost.it

15 agosto 2015

CELLULARI E ZAINETTO IN SPALLA. FRA I PROFUGHI SIRIANI IN GRECIA CHE SEMBRANO TURISTI COME NOI

A Symi ora arriva la borghesia, in fuga da un “Paese che non esiste più”. Parlano inglese, vestono all’occidentale. E non vogliono venire in Italia
Malak, 6 anni: fuggita da Damasco col padre, all'arrivo in Grecia
Malak ha sei anni, uno sguardo vispo e profondo, due fermacapelli rosa, un cappellino arancione con un orsetto sopra la visiera, una magliettina gialla coi bordini dorati e dei leggings con i fiori. Anche lo zainetto che porta sulle spalle è a fiori. Cammina lungo il porto dell’isola di Symi in Grecia per mano al suo papà. Non mi sarei mai fermato a guardarla, è uguale alle mie figlie, alle loro compagne di classe e a tutte le bambine che possiamo incontrare in questi giorni di vacanza sul lungomare di Alassio, nella piazza di Gressoney o tra i monumenti a Firenze. 

Ma Malak non è una turista e non è nemmeno in vacanza: è appena scesa da un grosso gommone nero in cui stava pigiata insieme ad altre 39 persone. Senza dire una parola si è tolta il giubbottino salvagente arancione, si è messa lo zainetto sulle spalle e poi ha chiesto al papà di aiutarla a sistemare bene le mollette tra i capelli. Malak andava a scuola a Damasco e ora è un numero o forse solo una goccia. Una goccia di quel fiume di persone che stanno fuggendo dalla Siria, più di 4 milioni hanno lasciato il Paese da quando è cominciata la guerra civile nel 2011, un quinto della popolazione che si è rifugiata in Libano, Turchia e Giordania. 

Per quattro anni sono scappati i disperati che si trovavano in mezzo ai combattimenti, quelli che perdevano la casa e finivano nella calca dei campi profughi oltre il confine. Oggi scappano le famiglie borghesi, i professionisti, gli imprenditori, scappa chi ha perso ogni speranza e abbandona lavoro, proprietà, case, terreni, negozi, aziende per salvare la vita. Scappa chi ripete che «La Siria non esiste più» e pensa non ci sia più tempo per aspettare o illudersi.  

Nell’epoca delle semplificazioni nella quale viviamo, l’esodo dei siriani che stanno sbarcando sulle isole greche in queste settimane è solo un pezzo del problema immigrazione che divide la nostra politica, la società e l’opinione pubblica. Parliamo tutti di numeri e facciamo un’unica somma, ma non possiamo tenere queste storie insieme alla migrazione economica che arriva dall’Africa, non c’entra niente: questa è una fuga dalla guerra, una fuga per la vita. Non per un futuro migliore, ma semplicemente per poter declinare ancora i verbi al futuro. 

Scappa chi se lo può permettere, dando origine a una migrazione senza ritorno, ne parleremo tra trent’anni come oggi si fa degli iraniani fuggiti dopo la rivoluzione che hanno creato comunità a Parigi o Los Angeles, o se ne discuterà tra un secolo come si è fatto in primavera con le comunità armene scappate dal genocidio i cui discendenti sono a Milano e Venezia, New York, in Francia e in California. 

50 mila dollari a tratta  
Ma prima di lasciare la parola alla Storia varrebbe la pena che se ne occupasse la cronaca. 
Li ho osservati per tre mattine di seguito, gommoni neri che arrivano all’imboccatura del porto intorno alle otto, partiti poco prima dell’alba dalla costa turca, due o tre ore di navigazione al massimo perché non c’è vento. A bordo sono stipate sempre quaranta persone, tutte con il giubbotto di salvataggio, gli adulti quello nero e rosso della Yamaha i bambini quello arancione.  

Non c’è scafista e non ci sono i cosiddetti mercanti di uomini: ci sono famiglie agiate che comprano un gommone, il motore, i giubbotti e si fanno indicare la rotta da profittatori che ricavano 50 mila dollari da ogni corsa. È la prima tappa di un viaggio che punta al Nord Europa: Germania, Svezia, Danimarca, Olanda le mete che tutti ripetono. Nessuno vuole venire in Italia, un professore di inglese a cui spiego che sono italiano mi dice: «Brutta crisi economica, grande disoccupazione giovanile, assolutamente da evitare». 

Spesso non sanno su che isola sono sbarcati, hanno navigato a vista e nessuno ha tirato fuori il cellulare per paura di perderlo o bagnarlo. Quando spiego che sono arrivati a Symi molti ci restano male, gli avevano raccontato che la rotta ideale è quella per Kos ma gli dico che è uguale, anzi forse meglio perché faranno più in fretta: devono andare alla polizia del porto dove passeranno almeno un giorno e una notte per esser identificati e lasciare le impronte digitali e della mano, poi potranno prendere la nave per Atene. Tutti dicono subito che poi partiranno verso la Macedonia per percorrere la rotta balcanica. 

Non avevo mai assistito a sbarchi di migranti, le immagini che vediamo ogni giorno alla televisione mostrano disperati semiassiderati che vengono coperti dai teli termici o ripescati dal mare, qui invece vedo famiglie che saltano giù dal gommone e cercano di non perdere la dignità, che non si sdraiano per terra, ma si sistemano i capelli e in fila, cercando di non dare nell’occhio, vanno alla capitaneria. Solo una coppia si trascina sfinita, lei ha il pancione e ha bisogno di essere sorretta, negli occhi di lui si legge il terrore che la moglie non ce la facesse o potesse partorire durante la traversata. 

Giovani come i nostri  
Ma alcuni non vogliono passare per profughi, per i derelitti del mondo e vanno a sedersi ai tavolini di un bar del porto. È lì che incontro Issam, con la moglie e quattro figli, due maschi e due femmine. Le ragazze hanno gli occhi truccati e una ha il piercing al naso. Il padre ha la camicia bianca, gli occhiali con la montatura spessa e ordina la colazione con l’aria di un uomo da sempre abituato ad essere rispettato. Faceva l’imprenditore ad Aleppo, produceva motori agricoli, mi parla in arabo e la figlia più grande traduce in inglese: «Ho svenduto o regalato tutto quello che avevo, non c’era più niente da produrre, più niente da vendere e più nulla da comprare. Non rimaneva che partire per salvarsi la vita». 

Issam non ha bisogno di conoscere le cifre ufficiali che parlano di 230 mila morti in quattro anni per sapere che è una fortuna avere ancora tutta la famiglia. Si guarda in giro e poi ricomincia a parlare: «Voglio provare a dare un futuro ai ragazzi. Vogliamo andare in Germania dove abbiamo degli amici». I due figli maschi stanno cercando di collegarsi alla rete wi-fi del bar per controllare la posta e Facebook, sono dei perfetti hipster, quel tipo di giovani con il ciuffo, i capelli rasati ai lati e la barba che vanno molto di moda in Occidente.  

Il rito di chi arriva è sempre uguale: si siedono all’ombra e tirano fuori dallo zainetto in cui è contenuta tutta la loro vita gli oggetti indispensabili. Ogni cosa era stata meticolosamente impacchettata nei fogli di plastica per alimenti per evitare che si bagnasse: documenti (alcuni hanno il passaporto e questo è il primo segno evidente che sono persone benestanti che erano già uscite dalla Siria), telefoni e denaro (euro e dollari). 

Quasi tutti hanno due telefoni, sempre Samsung, batterie di riserva, cavi e cavetti per ricaricare. Tutti cercano subito la linea o un wi-fi aperto, vogliono comunicare che sono vivi e sono arrivati in Europa. 

Un Paese abbandonato  
Vengono da Damasco, Aleppo e Homs, molti ragazzi sono tatuati, uno ha una croce cristiana sul braccio, e tutti hanno rigorosamente le Nike. Tanti di questi sono i ragazzi che mancano all’esercito di Assad, quelli che credono sia finita e non resti che la fuga. Fumano Gitanes e Marlboro rosse, sui pacchetti ci sono le immagini choc dei danni del tabacco e la cosa fa ridere: come se chi ha visto in faccia l’orrore si potesse ancora far impressionare. 

Le ragazze invece si dividono tra quelle con il velo e quelle senza, ma hanno tutte il trucco intorno agli occhi e le scarpe da tennis, le All Star e le Vans sono anche qui le più comuni. Quando sale il sole inforcano occhialoni da sole che nascondono mezza faccia. 

Se ne sta andando la generazione che ha studiato, che parla l’inglese, un Paese che non ha più anima adesso sta perdendo la sostanza del suo futuro. 
Sotto la Torre dell’Orologio, all’imboccatura del porto, si è sistemata la famiglia di Shadi, 42 anni, lui era funzionario governativo, la moglie insegnava inglese, sono fuggiti da Idlib, città vicina al confine turco, a metà strada tra Aleppo e il mare con i tre figli di 9, 5 e 3 anni. «Cercavamo di resistere, eravamo rimasti l’unica famiglia del nostro palazzo, poi il mese scorso in un bombardamento aereo è stata colpita la casa della famiglia di mia moglie, sono morte le sue sorelle e i loro sei bambini. 

Non sappiamo chi sia stato, se l’esercito di Bashar per riconquistare la città che adesso è in mano ai ribelli islamici o gli aerei internazionali, ma abbiamo capito che saremmo morti tutti perché la Siria non ha futuro. Allora ho preso i miei genitori, che hanno quasi settant’anni e li ho portati dai nonni paterni che hanno novant’anni e vivono a Damasco. I vecchi restano, mio padre mi ha detto di andare che per loro il viaggio era impossibile e mi ha dato la sua benedizione. So che non li rivedrò mai più. Siamo partiti di notte, otto giorni fa, abbiamo camminato attraverso le montagne, 11 adulti e 15 bambini. Poi siamo arrivati sulla costa turca e per comprare il gommone abbiamo dovuto pagare 1200 dollari a testa, metà prezzo per i bambini. Appena siamo partiti ci ha intercettati la Guardia costiera turca, hanno cercato di fermarci prima con una lunga asta per bucare il gommone, poi facendoci le onde intorno. Il gommone si è riempito d’acqua, gridavamo tutti di andare avanti, non si può tornare indietro, io non avrei avuto i soldi per un altro viaggio. Questa sera prendo il traghetto per Atene, poi andremo a Salonicco per passare in Macedonia e poi in Serbia. Ho tutte le indicazioni che mi ha mandato via WhatsApp chi è passato. So che dovremmo camminare lungo la ferrovia per giorni e che il problema ora è l’Ungheria che vuole costruire un muro. È l’ultimo scoglio, adesso chiedono mille dollari a testa per farti passare. Ma sono sicuro che alla fine ce la faremo ad arrivare in Svezia». Sorride e mi fissa, spera che lo rassicuri, il bambino più piccolo gioca con un pallone nuovo come se nulla fosse successo attorno a lui, come se fosse ancora nel cortile di casa. 

Un braccialetto in regalo  
Un uomo con i capelli rossi, che rincorre tre figli che non ne vogliono sapere di stare fermi, si intromette nel discorso, era impiegato in un’azienda privata a Damasco: «Anche nella capitale è impossibile vivere, la campagna intorno è in fiamme, nei quartieri periferici si combatte, per andare al lavoro dovevo superare tre posti di blocco e ogni giorno si intensificano i colpi di mortaio e le esplosioni. Non si poteva più restare». 

Un architetto che sta scrivendo una mail su un mini iPad racconta invece di non aver visto la guerra: «Nella mia zona non è passata, ma non esistono più economia e lavoro. Il Paese non esiste più». 
Sullo zainetto del papà di Malak ci sono le etichette di viaggi in aereo, solo lui e la figlia, le ha appena comprato un braccialetto dal tabaccaio e glielo sta legando al polso, cerca di dare alla figlia il senso di una normalità anche se stanno facendo un passo senza ritorno, anche se non sanno che cosa li aspetta. Con loro non c’è la mamma e non ho il coraggio di chiedere dove sia, Malak si mette a disegnare su un album di fumetti usando una scalinata come banco. 

Il gommone con cui sono arrivati è lì abbandonato, pieno di giubbotti di salvataggio, qualcuno si prenderà il motore poi il gommone verrà distrutto. Timidamente un ragazzo mi chiede se lo voglio comprare: «Lo abbiamo pagato un sacco di soldi e recuperarne almeno un po’ ci farebbe molto comodo». Non sa che è sotto sequestro e tra poco sarà squarciato dagli agenti della Guardia costiera. 

Aspetteranno fino a sera di essere identificati, quando ormai è buio sono sfiniti dall’attesa, dal caldo e dalla stanchezza, l’esercito dei ragazzi è sdraiato ovunque, chi dorme e chi fuma, nessuno parla più. Prima del traghetto per il Pireo dovranno vedere due tramonti. Perfino il nostro imprenditore si è addormentato appoggiato a un muretto fuori dalla Capitaneria, il trucco delle figlie si è sciolto, non immaginano quante difficoltà hanno ancora di fronte. Pensano di essere arrivati in Europa, ma non sanno quante ne esistono: nuovi muri, respingimenti, nuove frontiere. Non sanno che è un continente che sta perdendo l’anima come la Siria da cui sono scappati. 

Forse sono rincuorati dai gesti di solidarietà che hanno visto. Perché per un turista che volta la testa c’è n’è uno che si prende cura: un ragazzo di Cipro arriva con una cassa d’uva e si preoccupa anche di lavarla, una coppia di anziani olandesi porta vestiti per far cambiare i bambini, una signora francese è andata a comprare delle Barbie, una famiglia bresciana porta biscotti e una bambina libri da colorare e pastelli. L’Europa è anche questa. 

MARIO CALABRESI
www.lastampa.it

13 agosto 2015

MIGRANTI, UN PROGETTO COLLABORATIVO : SEGNALA UNA STORIA

Ventimiglia - La bambina che distribuisce caramelle ai migranti
Racconti-anticorpo contro il veleno dell’odio. In questo mio ultimo post parlavo di migranti, di come i media tendano a soffiare sul fuoco dell’intolleranza e del razzismo, di un clima sempre più soffocante fatto di ostilità, disprezzo, odio, di mancanza di empatia verso la sofferenza di altri esseri umani. E immaginavo come ognuno di noi – nell’era “we the media” – potesse contribuire a una sorta di contro-narrazione, diffondendo storie di solidarietà, convivenza, accoglienza. Subito dopo la pubblicazione alcune persone hanno iniziato a segnalare – tra sito e spazi social – piccole (grandi) storie di abbracci. E così osservando questa spinta inaspettata e commovente, io e Roberta ci siamo dette: “Ma sai che bello raccogliere tutte queste voci, queste testimonianze, queste segnalazioni in un unico simbolico grande racconto collettivo?”
Nasce così l’idea di Migranti, storie di solidarietà e di accoglienza. Un progetto collettivo. Un’idea che siamo riusciti a realizzare in meno di 24 ore grazie alla professionalità e alla generosità di Giorgio (che fa parte di Valigia Blu sin dagli inizi quando ancora era solo un gruppo Facebook denominato “Il rispetto dei cittadini e la dignità dei giornalisti”). Uno spazio dedicato unicamente a queste storie dove in modo partecipativo vogliamo raccogliere, segnalare, condividere l’esperienza del “restare umani”. Un modo simbolico per contribuire ognuno di noi nel suo piccolo. Evitando di volgere lo sguardo altrove. Impegnandoci nel diffondere racconti-anticorpo, riempiendo gli spazi digitali che abitiamo di bella umanità.
Scherzando con qualche “amico” di Facebook ci siamo detti: esistono gli hater, ma sono al lavoro anche i lover. Proviamo a dargli spazio. Diamo voce a persone e storie che raccontano un’altra storia. Fatta di incontri, di integrazione, di generosità e di amore per il prossimo. Un progetto ingenuo? Impossibile contrastare in modo efficace l’odio e il razzismo? Un odio che circola tutto intorno a noi e che per fortuna – anche grazie ai social – possiamo vedere, conoscere e quindi in qualche modo affrontare. Non cova sotterraneo, è lì in vista e ci sfida. Nessuno di noi potrà dire: “Non sapevo”. Ecco perché nonostante tutto, nonostante l’ingenuità forse di questa nostra idea, vale la pena provarci.
Se volete unirvi a noi nella ricerca, selezione e segnalazione di storie sui migranti, di storie di solidarietà e accoglienza scriveteci:

1) sulla bacheca Facebook di Valigia Blu
2) sulla mia bacheca Facebook
3) via mail info@valigiablu.it
4) su Twitter @valigiablu

Grazie!

Arianna

http://migranti.valigiablu.it/

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PROVIAMOCI ! NE VALE LA PENA

10 agosto 2015

SEBASTIANO NINO FEZZA, SINDACO 2015 DEL PAESE DEI BALOCCHI

Ecco chi è Sebastiano Nino Fezza. 

Anche in una terra desolata, dove tutto è distrutto, può nascere un sorriso. Anche in tempi di guerra, la speranza è viva e permettere di guardare al futuro. Quest’anno il sindaco de Il Paese dei Balocchi porta un insegnamento prezioso: basta poco per fare la felicità, ma è necessario difenderla per garantire un mondo di pace. Ad indossare la fascia tricolore della manifestazione sarà Sebastiano Nino Fezza, che in 30 anni da cinereporter Rai ha documentato 17 guerre e realizzato oltre 100 reportage nel sud del mondo, per poi cambiare radicalmente la sua vita. Da oltre 2 anni Fezza collabora con @uxilia Italia impegnata nei campi profughi a sviluppare progetti di aiuto ai bambini vittime della guerra in Siria.  In due anni sono state inviate oltre 150 tonnellate di aiuti di prima necessità e sviluppati progetti in campo sanitario come l’apertura di 6 piccoli ospedali nella Provincia di Idlib e Aleppo. 50.000 sono le persone aiutate nei campi profughi e con distribuzioni casa per casa nei villaggi isolati dal conflitto. 250 bambini studiano in una scuola nel campo di Atma grazie ad @uxilia Italia e 55 bambini hanno trovato una casa nell’orfanotrofio di Reyhanli. A Fano Fezza terrà un incontro dal titolo “Raccontiamo la guerra per insegnare la pace” nel quale parlerà della guerra con un’attenzione particolare alle popolazioni che la subiscono, ai deboli, soprattutto ai bambini, ai loro sogni ed alle loro speranze. Si presenterà anche di un progetto che ha visto la collaborazione dei bambini fanesi i quali attraverso letterine e disegni sono in contatto con i loro coetanei siriani. “Essere Sindaco del Paese dei Balocchi – commenta – è un grande onore ed una grande responsabilità che mi spinge a fare sempre di più per regalare un sorriso o una speranza ad un bambino. Da anni cerco di raccontare il mondo ad altezza di bambino, ma sono stati proprio i più piccoli ad insegnarmi tantissime cose: ho imparato il valore del sorriso, ho imparato il valore dell’ingenuità, ho imparato il valore della vita. Fano è la mia seconda patria, da più di due anni lavoro insieme con gli alunni delle elementari e con le loro insegnanti, insieme abbiamo creato un filo indissolubile con i bambini meno fortunati che vivono nei campi profughi siriani. Insieme abbiamo imparato cosa è la Solidarietà”.


Al paese dei balocchi 2015 i bambini raccontano la felicità

Tra conferme e tante novità si alza il sipario sulla XII edizione de il Paese dei Balocchi, la manifestazione promossa dall’omonima associazione ed in programma dal 20 al 23 agosto in piazza Bambini del Mondo a Bellocchi.

Tante attrattive sono pronte per conquistare ancora una volta il cuore dei più piccoli ma anche per strappare momenti di divertimento agli adulti. Il programma di quest’anno prevede quattro giornate ricche di laboratori, giochi, animazione e novità. Il tema scelto, come sempre impegnato e rivolto al sociale, è quello della felicità, intesa come un sentimento puro ed assoluto, che nasce spontaneo proprio nei bambini e che riesce a contagiare gli adulti. Da sempre la felicità è l’anima della festa ed era quindi naturale dedicare un’edizione a questo tema. Naturale, ma non scontato, dato che la felicità è qualcosa che va coltivato, inseguito, ogni giorno. Essere felici deve diventare una ricerca, un obiettivo a cui aspirare sempre, nella buona come nella cattiva sorte. Lo sa bene il sindaco dell’edizione 2015 de Il Paese dei Balocchi, Sebastiano Nino Fezza (nella foto), che incarna gesti di assoluto e spontaneo altruismo che hanno fatto la felicità di tanti bambini. Ma lo sanno bene anche le centinaia di volontari dell’associazione, che ogni anno con il cuore pieno di gioia regalano emozioni facendo rivivere la favola di Pinocchio. Il sindaco quest’anno sarà inoltre affiancato da un assessore alla creatività, le cui vesti saranno impersonate da Renata Gostoli, preziosa collaboratrice che ha fornito un contributo essenziale per allestire la prima mostra del giocattolo a Fano lo scorso 30 maggio alla Sala S. Michele. Un’altra bella novità è rappresentata dal forte coinvolgimento dei bambini della scuola elementare Fabio Tombari di Bellocchi, che sono diventati i protagonisti di un cortometraggio girato dal regista Henry Secchiaroli. Il video, dal titolo “La felicità è un viaggio, non una meta”, sarà proiettato venerdì 21 agosto alle 21.30 durante la festa.

“Gli alunni – racconta il presidente de Il Paese dei Balocchi Michele Brocchini – sono stati chiamati a rispondere a delle domande sul tema della felicità e ne sono scaturite risposte semplici ed originali, che dimostrano la gioia delle piccole cose, quelle che danno grandi soddisfazioni e restano un forte ricordo anche nel tempo”. Inoltre quest’anno il parco di Bellocchi sarà ricco di attrazioni ed ospiterà, oltre all’ormai nota balena, alla casa di Geppetto ed all’albero dell’energia, anche “El Bugiardòn”, cioè la rappresentazione di Pinocchio che ha sfilato al Carnevale ed è stato donato all’associazione dall’Ente Carnevalesca. Una svolta però coinvolge anche la ristorazione con un piatto assolutamente imperdibile: l’hamburgher firmato Paese dei Balocchi, cioè un panino farcito con le sembianze del logo dell’associazione, il pin ov. Le novità però non finiscono qui, perchè la festa non farà mancare altre sorprese che porteranno i visitatori ad immergersi e vivere in una bellissima fiaba.

www.oltrefano.it

04 agosto 2015

CHI DICE CIBO DICE DONNA


© Marc Dozier/Corbis
LE DONNE, NUTRICI DEL PIANETA
Sono le donne a nutrire e crescere i piccoli di homo sapiens sapiens in tutte le culture, a preparare i pasti a casa ogni giorno in tutto il pianeta. A loro, probabilmente, si deve la nascita dell'agricoltura.

Chi dice cibo dice donna. Questo perché, a dispetto del fatto che la maggior parte degli chef è di sesso maschile, sono le donne a far da mangiare tutti i giorni in tutto il pianeta. Immaginate più di un miliardo di donne che ogni giorno cucina per se stessa e la propria famiglia, in ogni angolo del mondo, praticamente ad ogni ora: avrete un'idea dell'importanza del ruolo familiare e domestico dell'altra metà del cielo.
E ancora sono loro ad occuparsi prevalentemente dell'orticoltura, dell'allevamento degli animali da cortile, della raccolta di erbe e frutti spontanei un po' in tutto il mondo. 

Il ruolo atavico delle donne
Sin dal Paleolitico il genere umano ha riconosciuto alle donne il ruolo indiscusso di datrici di vita, simboleggiato anche dalle cosiddette Veneri paleolitiche, opulenti statuine femminili che attraverso le loro forme generose rappresentavano la maternità e il loro ruolo di nutrici. 

Molti studiosi, tra cui alcuni archeologi, sostengono che siano state le donne, da sempre impegnate nella raccolta di erbe, fiori e frutti, a capire  i meccanismi della nascita e crescita delle piante, e che dunque si debba al loro sguardo profondo e materno la nascita dell'agricoltura e l'addomesticamento dei vegetali. 

Le donne hanno il ruolo pressoché esclusivo di nutrire i neonati e di svezzarli, accompagnando i bambini dall'assunzione del latte materno all'assunzione dei primi cibi solidi, e facendo sì che i piccoli acquisiscano preferenze alimentari proprie della loro cultura.  Si sa che i nostri gusti, le nostre idiosincrasie alimentari, le nostre preferenze si formano nei primi anni di vita, e tutto ciò dipende dalle donne della famiglia in cui siamo nati e cresciuti, in primis dalle mamme. 

L'agrobiodiversità e il lavoro nelle filiere alimentari
Sono soprattutto le donne in tutto il mondo, nei loro piccoli orti e frutteti familiari, a preservare le cultivar locali di ortaggi, legumi e frutta, preziose per mantenere le pratiche alimentari tradizionali, e la sovranità alimentare, ossia la possibilità di nutrirsi con derrate autoprodotte. 

Infine lavorano nelle principali filiere alimentari a livello mondiale, nei campi e nei pascoli, ma anche nelle aziende di trasformazione dei prodotti e nelle cucine delle strutture ristorative, dalle caffetterie ai ristoranti, sino ai self service e alle mense. Spesso sono addette alla vendita dei prodotti nei mercati rurali. Il lavoro di cura che le contraddistingue si concretizza anche nel dare forma, aroma e sapore al cibo, quotidianamente. Il 2014 è stato scelto dalle Nazioni Unite come International Year of Family Farming; Expo Milano 2015 dedica alle donne l'intero programma We; numerosi enti e associazioni non governative hanno varato programmi di sostegno alle donne rurali riconoscendo loro questo fondamentale ruolo di nutrici senza il quale oggi l'umanità non sarebbe giunta sin qui. 

(Alessandra Guigoni - magazine.expo2015.org)

02 agosto 2015

AFRICA EXPO 2015


Nei cluster dell'Expo di Milano, 35 nazioni africane condividono con paesi di altri continenti l’area del prodotto che li contraddistingue: caffè, cereali, cacao, frutta. Sebbene meno appariscenti dei grandi, i mini padiglioni offrono al visitatore la possibilità di un contatto diretto con i rappresentanti delle singole nazioni.


SAPORI E NON SOLO 

Meno appariscenti dei grandi padiglioni che si affacciano lungo il Decumano con le loro architetture ben caratterizzate, i cluster sono una delle novità di Expo 2015. I paesi che non hanno potuto investire in una struttura originale sono raggruppati per la prima volta non per zone geografiche, ma secondo filiere alimentari o identità tematiche: i nove cluster per l’appunto, ognuno costruito con uno stile che ne richiama il tema (per esempio le superfici metallizzate del cluster del Riso ricordano le risaie). Ed è inoltrandosi nei cluster, alcuni un po’ defilati come quello delle zone aride o delle Isole, che si trovano i paesi africani. Solo Angola, Marocco e Sudan hanno una partecipazione individuale, le altre 35 nazioni dell’Africa presenti ad Expo condividono invece con paesi di altri continenti l’area del prodotto che li contraddistingue: Caffè, Cereali, Frutta, Cacao….

Al visitatore frettoloso i mini padiglioni dei cluster possono apparire ripetitivi e le esposizioni dei prodotti un po’ monotone, ma quello che fa la differenza – rispetto alle avveniristiche e spesso affollatissime 53 strutture “self built” delle nazioni partecipanti e ai padiglioni delle grandi organizzazioni – è la possibilità di stabilire un contatto diretto con i rappresentanti dei singoli paesi, disponibili a intrattenere gli ospiti e a soddisfare domande e curiosità.

Così capita che al padiglione algerino, tra un’informazione e l’altra, venga offerto un delizioso cocktail rinfrescante a base di succo di limone, menta fresca, zucchero di canna, acqua di fiori d’arancio. Appositamente preparato per il visitatore dall’esperta “barwoman” di un grande hotel di Algeri. Lo spazio espositivo dell’Algeria, si trova al centro del cluster dedicato al Bio-Mediterraneo insieme ad altri nove paesi che si affacciano sullo stesso mare, fra i quali la Tunisia – che ha affidato a un video suggestivo l’evocazione dell’oasi di Gabes, luogo incantato per l’abbondanza d’acqua e la ricchezza della vegetazione – e all’Egitto, testimone millenario di civiltà e di colture agricole legate al Nilo, lungo il quale, con l’aiuto di occhiali “magici“, lo spettatore può immaginare di navigare.


Poca acqua, molta sabbia nel vicino cluster delle Zone aride. Una tenda tuareg in miniatura accoglie i visitatori nel padiglione del Mali. Sotto di essa, una coppia di artigiani originari di Menaka, nel nord del paese, ricorda i protagonisti di Timbuktu, l’ultimo film di Abderrahmane Sissako: lei cuce borse di cuoio colorate, lui vende gioielli tradizionali. «È la quarta esposizione universale alla quale partecipo» dice Assaleh Ag Haïnoune, presidente degli artigiani tuareg, poi il discorso va alla situazione attuale del suo paese, all’insicurezza che ancora regna nelle regioni del Nord.

Fra i prodotti locali esposti – marmellate di mango, miglio, sorgo – anche i libri della scrittrice Mah Aïssata Fofana, originaria di Bamako, autrice di La cucina in Africa. Un gigantesco baobab, albero simbolo del Senegal domina lo spazio espositivo del paese, mentre il sicomoro rappresenta l’Eritrea, nel cui padiglione è anche esposto un originale sistema di cottura che permette di risparmiare legname.


Lungo il chilometro e mezzo del Decumano si trova il cluster dei cereali: Mozambico, Zimbabwe, Togo, Repubblica del Congo gli stati africani presenti; più avanti s’incontrano quelli del Caffè (Burundi, Kenya, Rwanda, Etiopia, Uganda) e del Cacao (Camerun, Costa d’Avorio, Ghana, Gabon, Sao Tomè), molto visitati e anche sponsorizzati, rispettivamente, da Illy e Lindt.

La Sierra Leone è l’unico paese africano a partecipare al cluster del Riso, la Tanzania a quello delle spezie. Più affollato d’Africa il cluster Frutta e Legumi: Benin, Gambia, Guinea, Guinea Equatoriale, Zambia, Repubblica democratica del Congo hanno qui i loro padiglioni, collegati fra loro da una copertura in legno e da un mercato.



(Anna Jannello - www.nigrizia.it)