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18 agosto 2015

GURPREET, GLI OCCHI TRISTI DI UN INGEGNERE TRASFORMATO IN SCHIAVO

Parla lentamente, Singh Gurpreet, soppesa ogni parola. Un turbante blu gli avvolge i capelli, una lunga barba gli copre il viso. Un viso bello, dai tratti somatici definiti e dagli occhi penetranti. Ha 30 anni, Gurpreet; una moglie in India e un figlio di un anno che non ha mai visto. Come tutti gli uomini sikh, il suo nome è preceduto dalla parola Singh che vuol dire leone, mentre i nomi femminili sono accompagnati dal termine Kaur che significa principessa. Il nome Gurpreet è invece di fantasia; ha paura di essere riconosciuto dal padrone che, nel migliore dei casi, potrebbe licenziarlo.
Il tono pacato della voce, i modi eleganti. Tutto in lui è raffinato.

“Io sono andato in scuole private inglesi e poi ho studiato al college in India, dove ho seguito corsi per diventare ingegnere. I miei genitori hanno fatto tanto per mandarmi a studiare, ma un giorno la mia vita è cambiata. È arrivato un parente dall’Italia e mi ha detto di lasciare tutto e di partire. Diceva che qui sarei diventato ricco”. Si ferma e sul suo volto cala un’ombra. “Eravamo riusciti a comprare un trattore, era blu, era bello: lo trattavamo come un bambino. Per comprarlo i miei genitori avevano fatto tanti sacrifici, avevano venduto anche le bufale. Io per comprare il biglietto l’ho dovuto vendere insieme ai gioielli che avevamo. I soldi comunque non sono bastati e ci siamo indebitati. Una volta in Italia il lavoro però non c’era e dopo due anni al nord sono arrivato a Sabaudia, a Bella Farnia. Qui lavoro in una piantagione”.


Prende il cellulare, Gurpreet, e ci mostra una foto che lo ritrae mentre, inginocchiato, raccoglie i ravanelli. “Vedete io lavoro così, tutto il giorno sempre in ginocchio; posso fare solo mezz’ora di pausa. La mia paga dipende da quanti ravanelli riesco a raccogliere. Funziona così: ogni 300 mazzi da 15 ravanelli mi pagano 2 euro e 90. L’anno scorso abbiamo chiesto al padrone di alzarci la paga. Lui prima ci pagava 3 euro e dieci, ma dopo le nostre richieste ha abbassato il compenso a 2 euro e 90”.

Nessuno a casa sua in India conosce la sua situazione, neanche la moglie. Nelle persone come Gurpreet è forte il senso di vergogna. I genitori hanno venduto tutto per dargli una vita migliore, non può deluderli raccontando loro la verità. Così nasce la catena dello sfruttamento: chi viene sfruttato in Italia deve anche incitare i giovani parenti a partire come ha fatto lui. Se non lo facesse desterebbe forti sospetti.
Quando ci racconta la sua storia, Gurpreet non sembra mai arrabbiato. Per lui, alla fine dei conti, il padrone resta comunque buono e sembra giustificare i suoi atteggiamenti da schiavista. 
Diversamente da altri braccianti agricoli indiani, in lui però non c’è rassegnazione.


“Voglio imparare bene la lingua italiana e dopo voglio cambiare lavoro. Intanto cerco di aiutare la mia famiglia in India e soprattutto mio padre che sta male. Quando sono triste e piango penso a una canzone indiana che dice: ricordo tutti coloro che mi hanno fatto del bene”. In questo giovane dallo sguardo triste e intelligente non c’è spazio per il rancore verso il suo parente indiano che lo ha trascinato qui, né astio nei confronti del suo “buon” padrone.

di Nicole Di Giulio e Antonella Spinelli
www.ansa.it

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