Il tono pacato della voce, i modi eleganti. Tutto in lui è raffinato.
“Io sono andato in scuole private inglesi e poi ho studiato al college in India, dove ho seguito corsi per diventare ingegnere. I miei genitori hanno fatto tanto per mandarmi a studiare, ma un giorno la mia vita è cambiata. È arrivato un parente dall’Italia e mi ha detto di lasciare tutto e di partire. Diceva che qui sarei diventato ricco”. Si ferma e sul suo volto cala un’ombra. “Eravamo riusciti a comprare un trattore, era blu, era bello: lo trattavamo come un bambino. Per comprarlo i miei genitori avevano fatto tanti sacrifici, avevano venduto anche le bufale. Io per comprare il biglietto l’ho dovuto vendere insieme ai gioielli che avevamo. I soldi comunque non sono bastati e ci siamo indebitati. Una volta in Italia il lavoro però non c’era e dopo due anni al nord sono arrivato a Sabaudia, a Bella Farnia. Qui lavoro in una piantagione”.
Prende il cellulare, Gurpreet, e ci mostra una foto che lo ritrae mentre, inginocchiato, raccoglie i ravanelli. “Vedete io lavoro così, tutto il giorno sempre in ginocchio; posso fare solo mezz’ora di pausa. La mia paga dipende da quanti ravanelli riesco a raccogliere. Funziona così: ogni 300 mazzi da 15 ravanelli mi pagano 2 euro e 90. L’anno scorso abbiamo chiesto al padrone di alzarci la paga. Lui prima ci pagava 3 euro e dieci, ma dopo le nostre richieste ha abbassato il compenso a 2 euro e 90”.
Nessuno a casa sua in India conosce la sua situazione, neanche la moglie. Nelle persone come Gurpreet è forte il senso di vergogna. I genitori hanno venduto tutto per dargli una vita migliore, non può deluderli raccontando loro la verità. Così nasce la catena dello sfruttamento: chi viene sfruttato in Italia deve anche incitare i giovani parenti a partire come ha fatto lui. Se non lo facesse desterebbe forti sospetti.

Diversamente da altri braccianti agricoli indiani, in lui però non c’è rassegnazione.
“Voglio imparare bene la lingua italiana e dopo voglio cambiare lavoro. Intanto cerco di aiutare la mia famiglia in India e soprattutto mio padre che sta male. Quando sono triste e piango penso a una canzone indiana che dice: ricordo tutti coloro che mi hanno fatto del bene”. In questo giovane dallo sguardo triste e intelligente non c’è spazio per il rancore verso il suo parente indiano che lo ha trascinato qui, né astio nei confronti del suo “buon” padrone.
di Nicole Di Giulio e Antonella Spinelli
www.ansa.it
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