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02 ottobre 2018

MESSAGGIO DA GAZA: SIAMO NOVE PERSONE, NON ABBIAMO PIU' NIENTE DA MANGIARE...


_ A volte è difficile raccontare le cose senza che perdano il loro senso profondo _

Hema l’ho conosciuto il 17 febbraio 2018, ha scritto un messaggio alla pagina della mia associazione (Africa Milele Onlus), chiedeva aiuto per la sua famiglia “siamo nove persone, non abbiamo più niente da mangiare”.

Come da Gaza sia finito sulla pagina di una onlus che lavora in Kenya non lo so, ma sta di fatto che tra le mille associazioni a cui ha scritto, io sono stata l’unica che gli ha risposto.
Mi ha incuriosita quella richiesta, non chiedeva soldi ma cibo, e quando qualcuno chiede cibo è davvero allo stremo.

Non conoscevo la realtà di Gaza prima, ma nei giorni successivi a quel messaggio ci sono finita dentro.

Il primo periodo è stato davvero devastante, Hema ha 23 anni ma sembrava davvero di parlare con un vecchio senza speranze e senza nessun attaccamento alla vita, tutte le sere ci scrivevamo fino a tardi e tutte le notti mi addormentavo in un assoluto senso di tristezza. 
Avevo capito il suo bisogno di parlare, di tirare fuori i mostri che lo attanagliano, ascoltavo, molto spesso senza riuscire a rispondere nulla, perché per certe cose le parole non vengono.

Molte volte durante la giornata mi chiedeva cosa stessi facendo, e molte volte mi sono vergognata di rispondergli, perché stavo mangiando, o ero al centro commerciale a fare shopping o a prendere un caffè con un’amica, tutte cose troppo lontane dalla sua quotidianità.

Ho iniziato a raccontare questa storia sulla pagina dell’associazione, ho capito che parlare di Gaza non raccoglie gli stessi feedback che parlare di Africa, ma qualcuno ha dimostrato sensibilità e siamo riusciti a mandare diversi aiuti alla famiglia, il tanto da riuscire a fare la spesa per mangiare e per pagare le tasse scolastiche per una figlia o le medicine per il papà.

Sono dodici anni che il papà di Hema ha perso il lavoro, era impiegato in Israele ed è stato licenziato, ora riceve un sussidio di 100 dollari al mese che servono a poco e niente. 
A Gaza il lavoro non c’è, ogni tanto si trova da fare qualche giornata e si portano a casa 5 euro per oltre dieci ore di lavoro, oppure si trova da aiutare i pescatori o i contadini e si torna a casa con un po’ di pesce o un po’ di verdura.

A Gaza non si può uscire di casa durante il giorno se non lo stretto indispensabile perché le strade sono tappezzate di telecamere ed il minimo atteggiamento non ben accetto fa si che ti vengono a prendere e ti fanno capire che hai sbagliato a suon di legnate. 
Tanto meno si può uscire la notte, perché c’è il coprifuoco e se ti prendono per strada ti portano dentro e sono ancora legnate.

L’unica gioia di Hema è il tetto. Un piccolo spazio sopra la sua casa in cui si rifugia a condividere i suoi pensieri con la luna o dove si riunisce con i suoi pochi amici ad ascoltare musica e danzare. Più volte mi ha detto “tutto il mondo dovrebbe conoscere la gioia del tetto”.

“Ho 23 anni ma non sono mai nato, io voglio conoscere cos’è la vita”, questo mi ha spinto, oltre alla volontà di Hema di dare una mano alla sua famiglia, a decidere di aiutarlo ad uscire da Gaza.

Mi ha raccontato che una volta ha nuotato per tre ore ininterrottamente ma non è arrivato da nessuna parte. Mi ha prospettato diverse vie di fuga per mare e per terra, ma solo ad ascoltarlo mi si accapponava la pelle.

Mi sono informata, ma all’ambasciata di Gerusalemme ottenere un visto è impossibile, tanto più che Hema essendo palestinese, a Gerusalemme non ci può nemmeno entrare.
Così abbiamo deciso di provare ad uscire dalla parte di Rafah. 
Abbiamo affrontato la cosa step by step, cercando di non illuderci e di non sognare.

L’arrivo del passaporto, dopo ritardi perché al border c’erano le guerriglie e i messi non passavano, è stato il primo obiettivo raggiunto, ma la felicità più grande è stata quando è arrivato il visto per la Turchia.

Fatto questo abbiamo pagato il passaggio verso l’Egitto e abbiamo aspettato che aprissero il gate, cosa che non viene preannunciata se non il giorno prima.

Ogni step è stata un’attesa, tanto che Hema dice sempre che con me ha imparato il significato della parola “wait”, ma quella dell’apertura del gate è stata sicuramente l’attesa più lunga.

Mentre aspettavamo sono iniziate le 50 giornate della memoria a Gaza, dove ogni venerdì era detto il venerdì di fuoco, perché le manifestazioni al confine con Israele si trasformavano in guerriglie e tanti palestinesi sono stati feriti e uccisi.

Venerdì 30 marzo è stato il primo venerdì di fuoco e non sono riuscita a fermare Hema dall’andare verso il border. 
Alla domanda “perché andate?” mi ha sempre risposto “perché si tratta della libertà del mio paese, non posso abbandonare la mia gente”. 
E alla domanda “non avete paura?” risponde “la gente di Gaza non ha paura di niente, quando non hai nulla da perdere non ti fa paura nemmeno la morte”.

Quel venerdì ero lì con lui, ho assistito alla guerriglia tramite il telefono, ma Hema ha deciso presto di tornare a casa: “io grazie a te ho imparato tante cose nuove, mi ha detto, una di queste è la speranza. Oggi ho provato un sentimento nuovo, la paura di morire proprio ora che sono ad un passo dal conoscere la vita”.

Da lì a pochi giorni ci hanno comunicato che avrebbero aperto il gate per 48 ore. La gioia e la felicità.
Il giorno prima del passaggio ci siamo sentiti poco, mi ha mandato la foto della sua valigia, un piccolo zainetto nemmeno troppo pieno, per stare via tutta la vita.
Ha cenato con la famiglia, e questo non è scontato perché non tutti i giorni riescono a mangiare. 
E poi è andato sul tetto per festeggiare la sua partenza agli unici due amici a cui lo aveva confidato.
Sono passate 24 ore, poi 48, ma non lo hanno chiamato ed il gate è stato chiuso. Dovevamo aspettare di nuovo, il prossimo passaggio. 
Potevano essere giorni, settimane, più di un mese.

Hema non mi ha mai chiesto soldi, ma quando c’era qualcosa che non andava me ne accorgevo ed era sempre perché non mangiava da un po’, perché la famiglia era in sofferenza e non sapeva come fare, una volta perché erano due giorni che non bevevano. 
E’ sempre stato forte il desiderio di uscire da lì per aiutare il resto della famiglia ad avere una vita dignitosa.

Il 27 aprile è arrivata la chiamata. 
La mattina seguente alle nove doveva trovarsi al gate di uscita da Gaza.
Era pronto e preparato ma lasciare la famiglia è stato triste, da una parte la felicità di un sogno che si realizzava e la speranza di una vita migliore per tutti, dall’altra la consapevolezza di non rivederlo più.
Soprattutto per suo padre che da sempre è il suo punto di riferimento, un maestro, un fratello, il suo migliore amico.

Cosa volesse dire uscire da Rafah e arrivare al Il Cairo, nella pratica nessuno di noi lo sapeva, sapevamo solo che all’arrivo all’aeroporto egiziano lui avrebbe preso un volo per Istanbul e io lo avrei raggiunto.

Il viaggio è durato quattro giorni, trasporto in pullman da un passaggio all’altro e ore interminabili di attesa per entrare ed uscire prima dai cancelli di Gaza e poi da quelli egiziani. 
Quattro giorni senza mangiare e senza dormire, tenuti svegli con le secchiate d’acqua in faccia. In questi giorni abbiamo perso ogni comunicazione anche per quindici ore di fila, ma per fortuna Hema aveva un telefono e per fortuna suo padre gli ha insegnato la lungimiranza e l’intraprendenza e ogni tanto è riuscito a mandarmi segnali che fosse vivo.

La sera che è arrivato al Il Cairo mi ha mandato una foto, era distrutto, non sembrava nemmeno lui. 
Mi ha chiesto di rimanere una notte prima di prendere l’aereo, di poter mangiare, lavarsi e dormire qualche ora. 
L’arrivo a Istanbul per entrambi sarebbe stato il 3 maggio.

Alle 19 di giovedì 3 maggio mi sono imbarcata da Bologna, io e tante emozioni e sensazioni che non so se qualcuno potrebbe capire, quando sono partita però Hema doveva essere già arrivato a Istanbul da qualche ora, anche se sapevo che trovare come caricare il telefono scarico o un wifi non erano per lui problemi insormontabili, ho preferito pensare che ancora non ci fosse riuscito.

Atterrata in Turchia alle 22.30 ho acceso il telefono speranzosa di trovare un suo messaggio, me ne sono arrivati solo tanti di suo padre che era tremendamente preoccupato. 
In quel momento ho avuto paura e sono stata presa dall’angoscia di avergli fatto fare qualcosa di sbagliato. 
Ho pensato che non lo avessero fatto entrare, magari arrestato, magari rimandato in Egitto.

A mezzanotte, da sola, sul taxi che mi ha portato all’albergo non ho fatto altro che pensare “domani torno a casa, anzi no, vado in Egitto a cercarlo”, pervasa da una tristezza infinita per non aver considerato che qualcosa sarebbe potuto andare storto.

Il tassista mi ha lasciata all’hotel, e solo una volta entrata mi sono accorta che non era l’albergo che avevo prenotato, il responsabile alla reception deve aver notato il mio sconforto e mi ha fatta accompagnare a piedi al mio hotel da un ragazzo dello staff, mentre lo seguivo che correva con il mio trolley tra la movida di Istanbul ero profondamente amareggiata e spaesata. 
Dopo pochi minuti siamo entrati nell’hotel giusto, il tipo alla reception mi ha fatto un gran sorriso come a dirmi “finalmente!!” e neanche il tempo di connettere, Hema mi è corso incontro e mi ha abbracciata.
Per fortuna gli avevo dato il nome dell’albergo, non vedendomi arrivare in aeroporto lo ha raggiunto, ma avendo prenotato con una carta priva di soldi, fino al mio arrivo non gli avevano permesso né di caricare il telefono né di utilizzare il wifi, ma tutt’oggi mi dice “nemmeno per un momento ho pensato che tu non saresti arrivata”.

Sono stata con lui quattro giorni la prima volta, sorpreso da tutto quello che vedeva, l’acqua, le fontane, la corrente elettrica, i semafori, la gente che cammina libera per le strade ad ogni ora, che mangia a qualsiasi ora quello che vuole, la birra, le coppie che si tengono per mano, un mondo nuovo che non aveva mai visto se non su youtube.

Quando ci siamo conosciuti io scrivevo ad Hema in inglese e lui traduceva simultaneamente dall’arabo, ora parliamo ore in inglese.

Sono cominciati anche i racconti, tante volte mi aveva detto: “per telefono non posso ma quando ci vediamo saprai tutto e capirai molte cose”. 
Raccontare gli fa male. 
Quando inizia cambia aspetto, inizia a camminare nervosamente e si strizza gli occhi con le mani, le mascelle iniziano a tremare, fa fatica, mi racconta un pezzetto alla volta.

La prima volta che ha vissuto realmente la paura aveva dodici anni, la prima guerra con Israele, tornava a piedi da scuola e lungo la strada quattro camionette si sono fermate, i soldati sono usciti e hanno iniziato a sparare all’impazzata. 
Hema ha provato a cercare rifugio bussando a tutte le porte ma nessuno lo ha fatto entrare. 
Ha iniziato a correre forte tra i proiettili e ad ogni passo vedeva la morte.

Quando racconta questa cosa Hema trema, come trema quando racconta che suo fratello per la scheggia di una granata ha perso un occhio. Che suo padre per farlo operare sei volte per cercare di recuperare si è indebitato e quello è stato l’inizio della fine.

Anche Hema, come la maggior parte dei giovani uomini è stato arrestato, basta poco, un atteggiamento fuori dagli schemi, una parola di troppo. Ti buttano in cella finché non paghi per uscire, e ti torturano.

Hema ha le cicatrici sulle spalle perché legate le mani dietro la schiena, lo hanno appeso al soffitto per un tempo insopportabile. Le ginocchia, le caviglie e i piedi rovinati perché lo hanno legato al paraurti di una macchina e trascinato per metri. 
Hema ha 23 anni ma è un uomo.

Molte volte quando siamo in giro per la città mi dice “a tutta questa gente basterebbe un solo giorno a Gaza e si renderebbe conto di quello che ha”, lui ha iniziato a respirare la libertà ma ancora non se la sente addosso, fa fatica a liberarsi dalle costrizioni in cui è stato costretto per tanti anni. 
Si sente costantemente spiato e questo è il segno che hanno lasciato le telecamere nella sua vita.

Sono stata tre volte a Istanbul e ogni volta torno a casa distrutta, perché Hema la notte non dorme, nessuno dorme la notte a Gaza, riposa qualche ora quando viene giorno. 
E sono tornata anche affamata, perché per rispetto nei suoi confronti, mangio una sola volta al giorno, spesso solo la sera.

Abbiamo presentato la documentazione per avere visto di ingresso in Italia, ci è stato negato nonostante supportato da diverse associazioni ed enti che invitavano Hema a venire come testimone privilegiato per raccontare la vita dei giovani a Gaza. 
Visti umanitari non esistono, gli ingressi regolari in Italia sono un’utopia.

Questo ragazzo chiede solo di poter avere una vita, di poter rinascere a 23 anni e sogna di poter aiutare la sua famiglia, spera che un giorno Gaza possa tornare libera e mi dice “un giorno vorrei tornarci con te perché la gente povera di Gaza è la più ospitale e riconoscente del mondo”.

Ora sono passati quattro mesi, abbiamo provato tutte le strade per far arrivare Hema in Italia, e per quanto ne dicano strade regolari non esistono!

Hema si è trasferito in Tracia, perché la vita costa meno, perché la zona è più tranquilla e per stare vicino ad un ragazzo conosciuto durante la fuga da Gaza. 
Un ragazzo che sognava un futuro nel calcio, che, anche lui costretto a rimanere in Turchia aveva trovato un lavoro.
Turno di notte in un’azienda siderurgica, ovviamente irregolare, ovviamente senza formazione.
Dopo pochi giorni, la notte, una lastra da 250 kg è piombata dall’alto e gli ha tranciato in un attimo quattro dita della mano. 
Un ragazzo di 20 anni, una sofferenza che non finisce.

A distanza di quattro mesi, Hema esprime le sue considerazioni.

“Lo sai cosa posso vedere adesso della gente di Gaza? 
Non sanno cosa è la vita, non conoscono niente della vita. 
La vita fuori Gaza è veramente tanto, dentro Gaza è pochissimo.
A Gaza le persone cercano di essere felici per ogni piccola cosa che arriva, lottano per trovare cibo ogni giorno, e cercano di addormentarsi al mattino dopo ogni notte insonne.
Mi porto ancora dentro tante cose brutte, ricordo molto bene quante volte non ho mangiato e ho sofferto la fame. 
Stessa cosa per il dormire, per l’acqua, per tutto.
Ora mangio due volte al giorno, dormo 6/7 ore a notte, l’acqua non manca mai.
Incontro le persone che ho conosciuto e mi abbracciano per salutarmi ogni volta che mi vedono, anche quattro volte al giorno. 
Veramente dentro ad un abbraccio il saluto è più bello.
La gente di Gaza ha veramente bisogno di tempo per capire la vita fuori e trovare il modo di ricominciare”.

Dalla mia esperienza posso dire che le persone povere sono di una ricchezza d’animo incommensurabile, che ogni giudizio su chi arriva da un paese povero, in cui c’è guerra o disordini o persecuzioni, se non si è toccato con mano quella realtà, ogni giudizio, ogni supposizione allora è inammissibile.

Hema lotta ogni giorno con la malinconia di dover vivere da solo, la mancanza della sua famiglia, la paura di approcciarsi a una realtà che non conosce, consapevole di essere cresciuto in una realtà che lo ha da sempre limitato in tutto e per tutto.

A tutto questo, ormai può aggiungere, la certezza che entrare in Italia chiedendo permesso non gli è possibile, perché tutto quello che ha passato finora, non è sufficiente per essere “salvato”.

Lilian Sora
Africa Milele Onlus

* * * * *

Grazie Lilian per avermi autorizzata a pubblicare il tuo racconto.
Ci deve pur essere un modo per Hema di essere salvato... ce lo auguriamo con tutto il cuore. In bocca al lupo ed un saluto affettuoso ad entrambi.
Marinella



4 commenti:

  1. Tiziana (KarenBlixen-Malindi)2 ottobre 2018 alle ore 13:54

    Letto dal profilo della mia amica Lilian, letto nuovamente qui...ogni volta un tonfo al cuore e un gran senso di impotenza. Ho condiviso anche io la storia di Hema e a loro volta i nostri followers. Perché gli "invisibili" possano essere "visti e ascoltati".

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  2. Grazie Lilian per la persona che sei.
    Dolore profondo nel leggere la tua esperienza ma ancora di piu' nel vedere come la politica del vuoto della farsa e della bugia ha creato un abisso di disumanita'!

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