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27 ottobre 2018

LEZIONE DI STORIA... dalla Pagina Facebook di Paolo Longarini


Ve lo dico subito, è lungo.
Altrettanto subito, chissene frega.
Scusate la franchezza, ma in un momento in cui il ministro dell'orrore si esprime e vomita odio con i contati caratteri di un tweet, io ho la necessità di raccontare, con tutto lo spazio necessario, il suo fallimento.
Sparare è un attimo, un secondo, quello necessario per l'esplosione ed è tutto finito. Il danno, sicuramente maggiore ed evidente, fatto con l'immediatezza della brutalità. No, io voglio parlare, ho bisogno di immagini come il pugno chiuso di Pertini, il sorriso di Rosa Parks, il viso sereno di Peter Norman mentre cambia la storia, ho bisogno di sentire fino in fondo il racconto del sogno di Martin Luther King, quello di Nonno Titta mentre cucinava il cane del comandante tedesco, le voci metalliche degli ufficiali nazisti secondo Liliana Segre.
Serve tempo per la memoria.
Servono persone.

Come Gregorio Cortez, nome di fantasia, professore di Geostoria nel liceo linguistico frequentato da Irene, la mia figlia più piccola. Non ho la possibilità di chiedergli il permesso per raccontare questa vicenda, preferisco quindi, almeno per il momento, rispettare la sua privacy. Magari in seguito.

Chiamata mentre sono a lavoro.
Irene Cell.
Ovviamente mi preoccupo, rispondo senza badare alle persone davanti a me.
"Tesoro, che succede?"
"Nulla, ma devo raccontarti una storia. Quello che oggi è successo in classe".
E inizia.
Parla lei.

Ero seduta al banco e aspettavo, come tutti gli altri. Le solite chiacchiere, chi parla di ragazzi, chi di musica sempre più assurda, chi dei problemi con i propri genitori, quando ecco che entra il professore. Aveva una faccia diversa dal solito, non riuscivo a capire perché, sembrava felice e preoccupato insieme, nervoso ma deciso. Si siede alla cattedra, strano anche questo, visto che preferisce fare lezione in piedi.
"Ragazzi, devo leggervi una circolare, fate silenzio"
Non è stata certo la frase, ne ha lette tante altre da quando è iniziato l'anno, ma stavolta tutti hanno capito che c'era qualcosa di diverso. E avevamo ragione. 
Si sistema gli occhiali, schiarisce la voce.
"Con effetto immediato, da oggi, 16 ottobre 2018, in tutte le scuole italiane..."
E si ferma.
Lo vediamo nervoso, si passa più volte la mano tra i capelli e sul viso, non capiamo e vogliamo saperne di più: salta il campo scuola? Si è allagata la palestra? Che diamine succede, parli!
Lui invece si alza, si poggia contro la scrivania nella sua consueta posizione, butta ancora l'occhio sul foglio da cui stava leggendo e lo posa.
Prende aria, e finalmente parla.
"Tutti quelli che hanno i genitori stranieri, o anche un solo genitore straniero, alzino la mano".
Ci guardiamo in faccia, le teste si girano velocemente nel cercare impossibili risposte nei visi dei compagni, chiaramente, nessuno sa e nessuno può sapere.
"Alzate le mani!" stavolta alza la voce, questo serve allo scopo.
14 braccia alzate.
Su 26 persone che compongono la prima E.
Mi giro e vedo le mani alzate di Margherita, africana, e Lu, cinese: si guardano intorno senza capire, spaventate ancora no ma certamente intimorite. Nella sorpresa generale c'è in alto anche la mano di Ludovica.
"Mamma è moldava..."
In classe ci sono solo quattro ragazzi. Uno di loro alza la mano e Sandro, vicino di banco con cui ha una bromance meravigliosa, trattiene il respiro.
"Polonia, la mia famiglia viene da lì, sono tanti anni ormai che siamo qui in Italia, io sono nato al San Filippo Neri..."
Quando tutte le mani sono alzate, il professore torna a parlare.
"Raccogliete le vostre cose, fate gli zaini e andate al terzo piano, lì troverete la vostra nuova classe, dove resterete per tutta la durata del liceo"
Immediatamente ci sono state due reazioni: lacrime e rabbia. La situazione non era chiara ma è come se vedi qualcuno a terra e cinque persone che lo prendono a calci, ti fai un'idea di chi abbia ragione e chi no. Quindi chiediamo spiegazioni, subito, vogliamo capire, dobbiamo capire cosa diamine sta succedendo, la rabbia aumenta per le lacrime dei nostri compagni, sia di chi deve andare via, sia di chi non vuole che l'altro o l'altra se ne vada.
"Silenzio! Fate silenzio! È fatto obbligo per chi non ha alzato la mano di non interferire e ASSOLUTAMENTE - e qui ha alzato la voce, ho sentito il maiuscolo - non devono più esserci contatti di nessun tipo tra voi e LORO, da ora e per tutti i prossimi anni scolastici. Così è stato deciso, avanti, sbrigatevi"

Apriti cielo.
La classe si divide tra chi abbraccia e chi resta impietrito, il professore non dice nulla.
Io mi alzo e vedo tanti altri che lo fanno, abbiamo la faccia da guerra e, cazzo, tutta l'intenzione di usarla. 
Facciamo un passo verso di lui, quando il professore alza le mani, sorride e invita alla calma.
"Calma ragazzi, calma"
La voce è totalmente diversa, il colpo non è passato e tanti ancora piangono ma nella sua voce c'è qualcosa, qualcosa che ci calma.
"Sapete che giorno è oggi?"
Ci guardiamo attorno, nessuno vuole essere il primo a rispondere banalmente "martedì".
"Settantacinque anni fa, qui a Roma, c'è stato il rastrellamento del ghetto. Voi avete provato solo una minima parte di quello che sentirono centinaia di persone, molte di queste non furono solo trasferite in un altro piano, ma portate nei campi di concentramento e uccise barbaramente"
La tensione si allenta, alcuni compagni cadono letteralmente sulla sedia, gli abbracci sono più forti, Mario e Claudio ridono, piangono, si abbracciano, sputano a terra e ruttano, tutto il repertorio maschile, insomma.
"Ecco, voi avete reagito consolando i vostri compagni, chiedendo spiegazioni, stavate venendo qui da me belli carichi. Beh, tutto questo è bellissimo. E siete solo una prima. Ho fatto lo stesso in una quinta poco fa, e lì li ho fatti arrivare fino alla porta prima di fermarli. Due ragazzi hanno alzato la mano anche se prima non lo avevano fatto, mentendo sulla nazionalità dei genitori, la sorella di Franca - indica una ragazza che sta sempre sulle sue e parla pochissimo - mi è letteralmente saltata addosso e ha voluto leggere per filo e per segno la circolare, strappandola. Giorgio, un ragazzo della Sierra Leone stava preparando lo zaino quando si è alzata la sua ragazza e gli ha detto che se andava via lui sarebbe andata via anche lei. Tutti urlavano e i ragazzi rimasti indifferenti erano una risibile minoranza. Sapete cosa significa questo?"
"Che prima o poi se becca du' pizze, professò?", Lucia, come al solito, risponde da par suo.
"No. Che siete migliori di come vi raccontano. Che possono avere il consenso delle vecchie generazioni ma non il vostro. Non sapevate che giorno fosse oggi ma ne avevate comunque dentro di voi il significato, avete sentito l'ingiustizia nonostante tutto intorno a voi gridi di allontanare chi è straniero, chi è diverso secondo parametri tutti da stabilire, che l'integrazione è sbagliata. Nessuno di voi ha visto uno straniero: avete visto un amico o un compagno, e questo è bellissimo"
"Significa che c'è speranza, professore"
"Esatto, Mauro"
"Significa che se la pijano n'der culo e che nessuno ce deve da rompe er cazzo, professò, semo come er cavaliere nero!" 
"Lucia, anche meno"

La lezione è continuata sulle leggi razziali e raccontando l'olocausto, i campi, evocando nomi duri come Auschwitz.

Ecco, io vorrei ringraziare il professore di Geostoria di mia figlia. Vorrei ringraziarlo per essere così nonostante le migliaia di difficoltà che incontra, lui e tutti i suoi colleghi, nell'insegnare, nel formare, nel far crescere i nostri ragazzi nonostante tutti i paletti e le difficoltà messi da chi considera i professori un peso, da chi dice che fanno tre mesi di vacanza e lavorano mezza giornata. 
Lo ringrazio per il suo non arrendersi ed essere riuscito a far sentire la bellezza dell'amore, dell'unità.

Questa è la scuola che voglio per mia figlia.
Non mense separate, nessun noi contro loro.

Prof. Al primo consiglio di classe sarò quello con la maglietta "sei il mio eroe".
Grazie. Davvero.

Ora e sempre, resistenza.

26 ottobre 2018

SUDAN, TRA LA GUERRA DEI BAMBINI

Nel mondo sono stimati in 250 mila i ragazzi sotto i 18 anni utilizzati nei conflitti. In Sud Sudan nel 2015 a migliaia hanno consegnato uniformi e armi, dopo aver sparato e ucciso per l’esercito di liberazione. Tanti di loro, orfani e senza parenti, oggi studiano e lavorano, ma rischiano di tornare a combattere per disperazione

— Pibor, Sud Sudan —

L’acqua dei fiumi di Pibor cresce di ora in ora. Con ai piedi un paio di stivali di gomma, Babacho Mama continua a resistere nella sua capanna allagata. Mama ha combattuto come bambino soldato nella milizia Cobra. Sta facendo un ultimo tentativo di tenere aperta la sua piccola impresa di lavanderia che qualche volta gli consente di guadagnare abbastanza da permettersi un pasto al giorno. Nel 2015, durante il cessate il fuoco nel Sud Sudan, Mama e molti suoi commilitoni hanno consegnato le uniformi logore e lerce e le armi alle Nazioni Unite.


Si sono fatti grandi festeggiamenti per celebrare una delle più imponenti operazioni di liberazione di bambini soldato dalle mani delle forze militari africane.
«Fino a poco tempo fa, la gente dei villaggi vicini mi portava tutti i giorni la biancheria sporca, che andavo a lavare nel fiume», dice Mama. «Guadagnavo e avevo comunque il tempo per andare a scuola dall’altra parte del fiume. Adesso, con l’inondazione, ho dovuto smettere perché il bucato non si asciuga più».
Mama ha perso i genitori, tutti i suoi parenti e molti membri della sua tribù nel corso di una campagna di pulizia etnica. Il padre è stato ucciso da un proiettile, la madre è stata sgozzata. Hanno stuprato donne, ucciso persone. Mama, allora bambino, è rimasto senza nessuno a proteggerlo. «Avevo dodici anni…» – deve fermarsi a riflettere un momento perché come gran parte degli altri bambini soldato non sa quale sia la sua vera età – «… è stato allora che sono entrato nella milizia: mi hanno insegnato a usare le armi, ho imparato a memoria tutte le canzoni di guerra. Poi sono diventato uno di loro, un soldato». A differenza di molti dei suoi compagni di sventura, non è stato rapito né reclutato con la forza. Ha fatto la sua scelta per disperazione.
All’inizio, il suo compito consisteva solo nel portare le armi ai membri della milizia di rango più elevato, usate principalmente, così dice, per proteggere l’ex capo della milizia David Yau Yau, ora viceministro del Servizio pubblico e lo Sviluppo delle risorse umane. È stato Yau Yau a promuoverlo luogotenente, dandogli il distintivo di servizio verde decorato con la stella d’oro e l’acronimo «SPLA» (Sudan People’s Liberation Army, esercito popolare di liberazione del Sudan). Aveva dodici anni, quando ha puntato per la prima volta un’arma contro qualcuno – e ha sparato.
Quattro anni, ecco quanto è rimasto nella milizia Cobra. Poi si è stancato di combattere. Traumatizzato, ferito nel corpo e nell’anima da quanto gli era stato fatto, da quello che aveva visto e dalle cose che egli stesso aveva inflitto agli altri. «All’inizio quasi non riuscivo a dormire. Continuavo a svegliarmi, tremando, mi sembrava di sentire l’odore della morte, continuavo a vedere i miei amici morire». Quando gli chiediamo se per lui fosse difficile sparare e uccidere risponde pensieroso e a voce bassa, con gli occhi inchiodati al pavimento: «Se non spari, sei il primo a morire. Ho dovuto farlo».

— La realtà —

Dopo decenni di guerra civile, nel 2011 il Sud Sudan è riuscito a ottenere l’indipendenza dal Nord arabo. La gente ha esultato. Ma il sogno è durato poco.
Nel dicembre del 2013, nonostante in passato avessero combattuto fianco a fianco per l’indipendenza, si è aperta una disputa tra il nuovo presidente, Salva Kiir, e il suo ex vicepresidente, Riek Machar. Salva Kiir viene dalla tribù dei Dinka, e Machar è un Nuer, i due gruppi etnici più grandi del Sud Sudan. Nel Paese nuovissimo e unito, sotto la guida del presidente Kiir, i Dinka erano al potere. Il grande sogno del Paese si è sgretolato insieme allo smantellamento dell’esercito i cui soldati per mesi hanno aspettato un salario e infine hanno deciso di guadagnarsi da vivere saccheggiando villaggi, accampamenti e convogli di aiuti umanitari.
In molte parti del Paese, i diversi gruppi etnici hanno iniziato a darsi la caccia tra loro.
Con 2,3 milioni di profughi previsti per quest’anno, il Sud Sudan è attualmente la sede della più vasta crisi dei rifugiati in Africa, al terzo posto nella classifica mondiale subito dopo la Siria e l’Afghanistan. Nove su dieci rifugiati provenienti dal Sud Sudan che finiscono nei campi di accoglienza degli stati vicini sono donne e minori. E raccontano storie orribili di violenza.


— Una vita senza armi —

Si stima che, nel mondo, circa 250 mila ragazzi sotto i 18 anni vengano usati nelle guerre. Costano meno, si lamentano meno e sono più facilmente manipolabili dei soldati adulti. Come se fossero state fatte a misura di bambino, le armi leggere e quelle di piccole dimensioni sono uno degli articoli maggiormente esportati da chi commercia armi.
Nel 2002 è stato adottato il Protocollo opzionale alla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia riguardante il coinvolgimento di bambini nel conflitto armato. Eppure, secondo quanto riferiscono le Nazioni Unite, dal 2013 circa 17 mila minori sono stati reclutati nel Sud Sudan.
Nel 2015 c’è stata una delle più grandi operazioni di liberazione di bambini soldato, iniziata con una cerimonia solenne. Ma l’ottimismo iniziale è durato poco: appena un anno dopo, il numero di reclutamenti è tornato ad aumentare.
«Consegni uniforme e armi al campo di rifugiati, ti danno una tessera di registrazione che dice che non sei più un membro della milizia, ti danno abiti civili e ti fanno una visita medica. Poi ti dicono che stanno cercando i tuoi genitori e che ti troveranno una scuola così impari a leggere e scrivere. Ti fanno parlare con gli assistenti sociali dell’esperienza nella milizia». Avendo perso i genitori, fa parte dei «bambini perduti». Insieme ad alcune Ong, l’Unicef supporta la creazione di piccole imprese lavorative e così facendo dà ai ragazzi come Mama un’opportunità per avere di che vivere. All’epoca della sua liberazione, la succursale tedesca dell’organizzazione Veterinari senza frontiere ha regalato due capre a ogni bambino come capitale di avviamento per una nuova vita.
Ma attacchi e saccheggi ripetuti hanno fatto fallire gran parte dei progetti di start-up. Anche la maggior parte delle capre sono state rubate.

— Come ogni giorno —

La liberazione dei bambini dalle mani delle milizie e il loro conseguente disarmo all’inizio sono stati un successo. I bambini hanno consegnato le armi, ma poi molti di loro le hanno riprese in mano per difendersi quando ha iniziato a farsi strada un’altra minaccia: i conflitti etnici e tra tribù.
«Voglio davvero smettere di combattere. Voglio continuare ad andare a scuola, a imparare, a lavorare e a costruirmi una vita normale, ma come faccio a farlo?». Sono parole che Mama dice sottovoce, sempre tormentato da quello che prova, mentre va a scuola con indosso una camicia appena stirata e dei sandali puliti ai piedi. Sottobraccio porta una vecchia borsa di plastica dell’Unicef con dentro libri e quaderni.
Lungo il tragitto che fa quotidianamente per arrivare a scuola, si imbatte in centinaia di adolescenti e giovani uomini armati di grossi bastoni e scudi di legno. Gridano e fanno danze di guerra mentre marciano verso l’Albero della Saggezza. È quello che anche molte generazioni prima di loro erano solite fare quando avevano problemi. Appartengono a una milizia della tribù dei Murle e vogliono negoziare con gli amministratori locali. Se non si raggiungerà un accordo, allora scoppierà la guerra e i bastoni saranno sostituiti dalle armi pesanti. Mama riconosce alcuni dei suoi ex commilitoni, ma continua a camminare.
Una volta arrivato alla scuola elementare maschile di Pibor, si siede insieme ad altri bambini sulle vecchie panche graffiate e scarabocchiate della quarta elementare. La scuola non prevede il pranzo, se lo offrisse, sarebbe un incentivo per portare a scuola altri bambini. Quelli che frequentano si addormentano spesso per la fame. Non stupisce sentire dall’Unicef che più del 70 per cento dei bambini nel Sud Sudan non finiscono le elementari.
Mama e i suoi compagni di scuola aspettano il loro insegnante e nel frattempo guardano la lavagna. Sopra c’è una frase: «Gesù gli ha detto, non avere paura, perché da adesso in avanti non pescherai pesci ma uomini…!». Mama tira fuori il quaderno e inizia a leggere gli appunti che ha preso alla lezione precedente. Cerca di orientarsi con l’inglese, ma non è facile per un ragazzino che ha imparato solo da poco l’alfabeto. Ed ecco che arriva Adam, il suo insegnante di inglese. Ha un’ora di ritardo, gli capita spesso, perché come tutti gli insegnanti non viene pagato da mesi e così deve guadagnarsi da vivere facendo altri lavori. Eppure continua a insegnare.
Asciugandosi il sudore dalla fronte Adam interroga sui verbi inglesi. Guarda Mama che, scoraggiato, cerca disperatamente le risposte nei quaderni sporchi e pieni di orecchie. Dopo poco meno di un’ora, Adam guarda l’orologio, dichiara che oggi la lezione è terminata e dice che continuerà domani. Un normale giorno di scuola a Pibor.
Tornando a casa nel caldo opprimente di mezzogiorno, Mama deve passare di nuovo davanti alle giovani milizie che continuano a urlare e radunarsi intorno all’Albero della Saggezza. Raggiunto il fiume, si unisce ai molti passeggeri che aspettano le piccole barche che fanno da traghetti, perché il nuovo ponte, costruito di recente con finanziamenti europei, è allagato e non è più percorribile. Per pochi centesimi, bambini intraprendenti trasportano i loro passeggeri fino all’altra riva del fiume. Invece dei remi, che non ci sono, usano le pale rimaste dalla costruzione del ponte.
Mentre l’acqua continua ad allagare la sua piccola capanna, Mama piega velocemente le camicie che ha appena stirato. Stasera non c’è niente da mangiare. Non c’è un altro lavoro che può fare? Accanto alla pila di biancheria in attesa di essere lavata, c’è il suo vecchio distintivo di servizio.
Da giorni ormai, un pensiero tormenta il timido e introverso Mama: niente lavoro, niente soldi, niente futuro, niente cibo. Forse è il caso di riprendere in mano le armi.

Peter Bauza
[traduzione di Tiziana Lo Porto]

www.vanityfair.it/news/storie-news/2018/05/05/sud-sudan-la-guerra-dei-bambini

02 ottobre 2018

MESSAGGIO DA GAZA: SIAMO NOVE PERSONE, NON ABBIAMO PIU' NIENTE DA MANGIARE...


_ A volte è difficile raccontare le cose senza che perdano il loro senso profondo _

Hema l’ho conosciuto il 17 febbraio 2018, ha scritto un messaggio alla pagina della mia associazione (Africa Milele Onlus), chiedeva aiuto per la sua famiglia “siamo nove persone, non abbiamo più niente da mangiare”.

Come da Gaza sia finito sulla pagina di una onlus che lavora in Kenya non lo so, ma sta di fatto che tra le mille associazioni a cui ha scritto, io sono stata l’unica che gli ha risposto.
Mi ha incuriosita quella richiesta, non chiedeva soldi ma cibo, e quando qualcuno chiede cibo è davvero allo stremo.

Non conoscevo la realtà di Gaza prima, ma nei giorni successivi a quel messaggio ci sono finita dentro.

Il primo periodo è stato davvero devastante, Hema ha 23 anni ma sembrava davvero di parlare con un vecchio senza speranze e senza nessun attaccamento alla vita, tutte le sere ci scrivevamo fino a tardi e tutte le notti mi addormentavo in un assoluto senso di tristezza. 
Avevo capito il suo bisogno di parlare, di tirare fuori i mostri che lo attanagliano, ascoltavo, molto spesso senza riuscire a rispondere nulla, perché per certe cose le parole non vengono.

Molte volte durante la giornata mi chiedeva cosa stessi facendo, e molte volte mi sono vergognata di rispondergli, perché stavo mangiando, o ero al centro commerciale a fare shopping o a prendere un caffè con un’amica, tutte cose troppo lontane dalla sua quotidianità.

Ho iniziato a raccontare questa storia sulla pagina dell’associazione, ho capito che parlare di Gaza non raccoglie gli stessi feedback che parlare di Africa, ma qualcuno ha dimostrato sensibilità e siamo riusciti a mandare diversi aiuti alla famiglia, il tanto da riuscire a fare la spesa per mangiare e per pagare le tasse scolastiche per una figlia o le medicine per il papà.

Sono dodici anni che il papà di Hema ha perso il lavoro, era impiegato in Israele ed è stato licenziato, ora riceve un sussidio di 100 dollari al mese che servono a poco e niente. 
A Gaza il lavoro non c’è, ogni tanto si trova da fare qualche giornata e si portano a casa 5 euro per oltre dieci ore di lavoro, oppure si trova da aiutare i pescatori o i contadini e si torna a casa con un po’ di pesce o un po’ di verdura.

A Gaza non si può uscire di casa durante il giorno se non lo stretto indispensabile perché le strade sono tappezzate di telecamere ed il minimo atteggiamento non ben accetto fa si che ti vengono a prendere e ti fanno capire che hai sbagliato a suon di legnate. 
Tanto meno si può uscire la notte, perché c’è il coprifuoco e se ti prendono per strada ti portano dentro e sono ancora legnate.

L’unica gioia di Hema è il tetto. Un piccolo spazio sopra la sua casa in cui si rifugia a condividere i suoi pensieri con la luna o dove si riunisce con i suoi pochi amici ad ascoltare musica e danzare. Più volte mi ha detto “tutto il mondo dovrebbe conoscere la gioia del tetto”.

“Ho 23 anni ma non sono mai nato, io voglio conoscere cos’è la vita”, questo mi ha spinto, oltre alla volontà di Hema di dare una mano alla sua famiglia, a decidere di aiutarlo ad uscire da Gaza.

Mi ha raccontato che una volta ha nuotato per tre ore ininterrottamente ma non è arrivato da nessuna parte. Mi ha prospettato diverse vie di fuga per mare e per terra, ma solo ad ascoltarlo mi si accapponava la pelle.

Mi sono informata, ma all’ambasciata di Gerusalemme ottenere un visto è impossibile, tanto più che Hema essendo palestinese, a Gerusalemme non ci può nemmeno entrare.
Così abbiamo deciso di provare ad uscire dalla parte di Rafah. 
Abbiamo affrontato la cosa step by step, cercando di non illuderci e di non sognare.

L’arrivo del passaporto, dopo ritardi perché al border c’erano le guerriglie e i messi non passavano, è stato il primo obiettivo raggiunto, ma la felicità più grande è stata quando è arrivato il visto per la Turchia.

Fatto questo abbiamo pagato il passaggio verso l’Egitto e abbiamo aspettato che aprissero il gate, cosa che non viene preannunciata se non il giorno prima.

Ogni step è stata un’attesa, tanto che Hema dice sempre che con me ha imparato il significato della parola “wait”, ma quella dell’apertura del gate è stata sicuramente l’attesa più lunga.

Mentre aspettavamo sono iniziate le 50 giornate della memoria a Gaza, dove ogni venerdì era detto il venerdì di fuoco, perché le manifestazioni al confine con Israele si trasformavano in guerriglie e tanti palestinesi sono stati feriti e uccisi.

Venerdì 30 marzo è stato il primo venerdì di fuoco e non sono riuscita a fermare Hema dall’andare verso il border. 
Alla domanda “perché andate?” mi ha sempre risposto “perché si tratta della libertà del mio paese, non posso abbandonare la mia gente”. 
E alla domanda “non avete paura?” risponde “la gente di Gaza non ha paura di niente, quando non hai nulla da perdere non ti fa paura nemmeno la morte”.

Quel venerdì ero lì con lui, ho assistito alla guerriglia tramite il telefono, ma Hema ha deciso presto di tornare a casa: “io grazie a te ho imparato tante cose nuove, mi ha detto, una di queste è la speranza. Oggi ho provato un sentimento nuovo, la paura di morire proprio ora che sono ad un passo dal conoscere la vita”.

Da lì a pochi giorni ci hanno comunicato che avrebbero aperto il gate per 48 ore. La gioia e la felicità.
Il giorno prima del passaggio ci siamo sentiti poco, mi ha mandato la foto della sua valigia, un piccolo zainetto nemmeno troppo pieno, per stare via tutta la vita.
Ha cenato con la famiglia, e questo non è scontato perché non tutti i giorni riescono a mangiare. 
E poi è andato sul tetto per festeggiare la sua partenza agli unici due amici a cui lo aveva confidato.
Sono passate 24 ore, poi 48, ma non lo hanno chiamato ed il gate è stato chiuso. Dovevamo aspettare di nuovo, il prossimo passaggio. 
Potevano essere giorni, settimane, più di un mese.

Hema non mi ha mai chiesto soldi, ma quando c’era qualcosa che non andava me ne accorgevo ed era sempre perché non mangiava da un po’, perché la famiglia era in sofferenza e non sapeva come fare, una volta perché erano due giorni che non bevevano. 
E’ sempre stato forte il desiderio di uscire da lì per aiutare il resto della famiglia ad avere una vita dignitosa.

Il 27 aprile è arrivata la chiamata. 
La mattina seguente alle nove doveva trovarsi al gate di uscita da Gaza.
Era pronto e preparato ma lasciare la famiglia è stato triste, da una parte la felicità di un sogno che si realizzava e la speranza di una vita migliore per tutti, dall’altra la consapevolezza di non rivederlo più.
Soprattutto per suo padre che da sempre è il suo punto di riferimento, un maestro, un fratello, il suo migliore amico.

Cosa volesse dire uscire da Rafah e arrivare al Il Cairo, nella pratica nessuno di noi lo sapeva, sapevamo solo che all’arrivo all’aeroporto egiziano lui avrebbe preso un volo per Istanbul e io lo avrei raggiunto.

Il viaggio è durato quattro giorni, trasporto in pullman da un passaggio all’altro e ore interminabili di attesa per entrare ed uscire prima dai cancelli di Gaza e poi da quelli egiziani. 
Quattro giorni senza mangiare e senza dormire, tenuti svegli con le secchiate d’acqua in faccia. In questi giorni abbiamo perso ogni comunicazione anche per quindici ore di fila, ma per fortuna Hema aveva un telefono e per fortuna suo padre gli ha insegnato la lungimiranza e l’intraprendenza e ogni tanto è riuscito a mandarmi segnali che fosse vivo.

La sera che è arrivato al Il Cairo mi ha mandato una foto, era distrutto, non sembrava nemmeno lui. 
Mi ha chiesto di rimanere una notte prima di prendere l’aereo, di poter mangiare, lavarsi e dormire qualche ora. 
L’arrivo a Istanbul per entrambi sarebbe stato il 3 maggio.

Alle 19 di giovedì 3 maggio mi sono imbarcata da Bologna, io e tante emozioni e sensazioni che non so se qualcuno potrebbe capire, quando sono partita però Hema doveva essere già arrivato a Istanbul da qualche ora, anche se sapevo che trovare come caricare il telefono scarico o un wifi non erano per lui problemi insormontabili, ho preferito pensare che ancora non ci fosse riuscito.

Atterrata in Turchia alle 22.30 ho acceso il telefono speranzosa di trovare un suo messaggio, me ne sono arrivati solo tanti di suo padre che era tremendamente preoccupato. 
In quel momento ho avuto paura e sono stata presa dall’angoscia di avergli fatto fare qualcosa di sbagliato. 
Ho pensato che non lo avessero fatto entrare, magari arrestato, magari rimandato in Egitto.

A mezzanotte, da sola, sul taxi che mi ha portato all’albergo non ho fatto altro che pensare “domani torno a casa, anzi no, vado in Egitto a cercarlo”, pervasa da una tristezza infinita per non aver considerato che qualcosa sarebbe potuto andare storto.

Il tassista mi ha lasciata all’hotel, e solo una volta entrata mi sono accorta che non era l’albergo che avevo prenotato, il responsabile alla reception deve aver notato il mio sconforto e mi ha fatta accompagnare a piedi al mio hotel da un ragazzo dello staff, mentre lo seguivo che correva con il mio trolley tra la movida di Istanbul ero profondamente amareggiata e spaesata. 
Dopo pochi minuti siamo entrati nell’hotel giusto, il tipo alla reception mi ha fatto un gran sorriso come a dirmi “finalmente!!” e neanche il tempo di connettere, Hema mi è corso incontro e mi ha abbracciata.
Per fortuna gli avevo dato il nome dell’albergo, non vedendomi arrivare in aeroporto lo ha raggiunto, ma avendo prenotato con una carta priva di soldi, fino al mio arrivo non gli avevano permesso né di caricare il telefono né di utilizzare il wifi, ma tutt’oggi mi dice “nemmeno per un momento ho pensato che tu non saresti arrivata”.

Sono stata con lui quattro giorni la prima volta, sorpreso da tutto quello che vedeva, l’acqua, le fontane, la corrente elettrica, i semafori, la gente che cammina libera per le strade ad ogni ora, che mangia a qualsiasi ora quello che vuole, la birra, le coppie che si tengono per mano, un mondo nuovo che non aveva mai visto se non su youtube.

Quando ci siamo conosciuti io scrivevo ad Hema in inglese e lui traduceva simultaneamente dall’arabo, ora parliamo ore in inglese.

Sono cominciati anche i racconti, tante volte mi aveva detto: “per telefono non posso ma quando ci vediamo saprai tutto e capirai molte cose”. 
Raccontare gli fa male. 
Quando inizia cambia aspetto, inizia a camminare nervosamente e si strizza gli occhi con le mani, le mascelle iniziano a tremare, fa fatica, mi racconta un pezzetto alla volta.

La prima volta che ha vissuto realmente la paura aveva dodici anni, la prima guerra con Israele, tornava a piedi da scuola e lungo la strada quattro camionette si sono fermate, i soldati sono usciti e hanno iniziato a sparare all’impazzata. 
Hema ha provato a cercare rifugio bussando a tutte le porte ma nessuno lo ha fatto entrare. 
Ha iniziato a correre forte tra i proiettili e ad ogni passo vedeva la morte.

Quando racconta questa cosa Hema trema, come trema quando racconta che suo fratello per la scheggia di una granata ha perso un occhio. Che suo padre per farlo operare sei volte per cercare di recuperare si è indebitato e quello è stato l’inizio della fine.

Anche Hema, come la maggior parte dei giovani uomini è stato arrestato, basta poco, un atteggiamento fuori dagli schemi, una parola di troppo. Ti buttano in cella finché non paghi per uscire, e ti torturano.

Hema ha le cicatrici sulle spalle perché legate le mani dietro la schiena, lo hanno appeso al soffitto per un tempo insopportabile. Le ginocchia, le caviglie e i piedi rovinati perché lo hanno legato al paraurti di una macchina e trascinato per metri. 
Hema ha 23 anni ma è un uomo.

Molte volte quando siamo in giro per la città mi dice “a tutta questa gente basterebbe un solo giorno a Gaza e si renderebbe conto di quello che ha”, lui ha iniziato a respirare la libertà ma ancora non se la sente addosso, fa fatica a liberarsi dalle costrizioni in cui è stato costretto per tanti anni. 
Si sente costantemente spiato e questo è il segno che hanno lasciato le telecamere nella sua vita.

Sono stata tre volte a Istanbul e ogni volta torno a casa distrutta, perché Hema la notte non dorme, nessuno dorme la notte a Gaza, riposa qualche ora quando viene giorno. 
E sono tornata anche affamata, perché per rispetto nei suoi confronti, mangio una sola volta al giorno, spesso solo la sera.

Abbiamo presentato la documentazione per avere visto di ingresso in Italia, ci è stato negato nonostante supportato da diverse associazioni ed enti che invitavano Hema a venire come testimone privilegiato per raccontare la vita dei giovani a Gaza. 
Visti umanitari non esistono, gli ingressi regolari in Italia sono un’utopia.

Questo ragazzo chiede solo di poter avere una vita, di poter rinascere a 23 anni e sogna di poter aiutare la sua famiglia, spera che un giorno Gaza possa tornare libera e mi dice “un giorno vorrei tornarci con te perché la gente povera di Gaza è la più ospitale e riconoscente del mondo”.

Ora sono passati quattro mesi, abbiamo provato tutte le strade per far arrivare Hema in Italia, e per quanto ne dicano strade regolari non esistono!

Hema si è trasferito in Tracia, perché la vita costa meno, perché la zona è più tranquilla e per stare vicino ad un ragazzo conosciuto durante la fuga da Gaza. 
Un ragazzo che sognava un futuro nel calcio, che, anche lui costretto a rimanere in Turchia aveva trovato un lavoro.
Turno di notte in un’azienda siderurgica, ovviamente irregolare, ovviamente senza formazione.
Dopo pochi giorni, la notte, una lastra da 250 kg è piombata dall’alto e gli ha tranciato in un attimo quattro dita della mano. 
Un ragazzo di 20 anni, una sofferenza che non finisce.

A distanza di quattro mesi, Hema esprime le sue considerazioni.

“Lo sai cosa posso vedere adesso della gente di Gaza? 
Non sanno cosa è la vita, non conoscono niente della vita. 
La vita fuori Gaza è veramente tanto, dentro Gaza è pochissimo.
A Gaza le persone cercano di essere felici per ogni piccola cosa che arriva, lottano per trovare cibo ogni giorno, e cercano di addormentarsi al mattino dopo ogni notte insonne.
Mi porto ancora dentro tante cose brutte, ricordo molto bene quante volte non ho mangiato e ho sofferto la fame. 
Stessa cosa per il dormire, per l’acqua, per tutto.
Ora mangio due volte al giorno, dormo 6/7 ore a notte, l’acqua non manca mai.
Incontro le persone che ho conosciuto e mi abbracciano per salutarmi ogni volta che mi vedono, anche quattro volte al giorno. 
Veramente dentro ad un abbraccio il saluto è più bello.
La gente di Gaza ha veramente bisogno di tempo per capire la vita fuori e trovare il modo di ricominciare”.

Dalla mia esperienza posso dire che le persone povere sono di una ricchezza d’animo incommensurabile, che ogni giudizio su chi arriva da un paese povero, in cui c’è guerra o disordini o persecuzioni, se non si è toccato con mano quella realtà, ogni giudizio, ogni supposizione allora è inammissibile.

Hema lotta ogni giorno con la malinconia di dover vivere da solo, la mancanza della sua famiglia, la paura di approcciarsi a una realtà che non conosce, consapevole di essere cresciuto in una realtà che lo ha da sempre limitato in tutto e per tutto.

A tutto questo, ormai può aggiungere, la certezza che entrare in Italia chiedendo permesso non gli è possibile, perché tutto quello che ha passato finora, non è sufficiente per essere “salvato”.

Lilian Sora
Africa Milele Onlus

* * * * *

Grazie Lilian per avermi autorizzata a pubblicare il tuo racconto.
Ci deve pur essere un modo per Hema di essere salvato... ce lo auguriamo con tutto il cuore. In bocca al lupo ed un saluto affettuoso ad entrambi.
Marinella



01 ottobre 2018

VI RACCONTO L'AFRICA: ANCHE A MALKA

@eritrean_phtography
I bambini del villaggio si preparavano a tornare alle loro case, dopo un’ennesima giornata di fatiche.
Tutti, tranne Ahmedin, che si era arrampicato sul ramo più alto di un’acacia, per guardare il lago. Amava vedere l’acqua luccicare e sentire il vento tra i rami degli alberi illuminati dagli ultimi raggi del sole…
“Dai Ahmedin, vuoi muoverti? Prima o poi ti lasceremo indietro!“
“Arrivo! - gridò Ahmedin, e saltò giù dall’albero. 
Ma chi è questo Ahmedin, direte. Un ragazzino di 12 anni, agile come una gazzella, due grandi occhi scuri, intelligenti e curiosi, uno spirito libero insomma e… un po’ sfaticato.
Ah. E aveva un sogno, Ahmedin.
@eritreastolemyheart

Il villaggio di Malka si trova a 100 km a sud di Massaua, ai piedi di una grande montagna, dove sembra quasi trovare rifugio dall’immensità del paesaggio che lo circonda.
La vita a Malka, come in molte altre parti dell’Africa, somiglia a quel lago che piace tanto ad Ahmedin. Molti la guardano da lontano con compassione, spesso chiedendosi come ancora resiste, quando la danno ormai per spacciata.
Forse non sanno come in questi posti la vita sia diventata testarda.
Uomini, donne e bambini che cercano di andare avanti in un ambiente arido e inospitale, in condizioni di estrema povertà, tra le frequenti siccità e i contraccolpi di una guerra tormentata che ha distrutto vite, famiglie, speranze.
A Malka il problema più grave è quello dell’acqua. Le siccità hanno prosciugato le fonti idriche, impedendo la coltivazione di quei pochi terreni fertili a disposizione e l’allevamento del bestiame, lasciando la popolazione in balia di carestie e malattie.
Ogni giorno da Malka un gruppo di bambini percorre 8 km con dei grandi secchi per giungere al lago in modo da rifornire il villaggio di acqua.
Ahmedin aveva cominciato ad andare al lago fin da piccolino, ma a differenza di tanti che si erano presto abituati, aveva sempre cercato il modo di sgattaiolare, anche perché preferiva di gran lunga andare a scuola.
Da una decina di anni, infatti, un gruppo di italo - inglesi aveva attivato un centro di volontariato per migliorare le condizioni di vita della popolazione.
I primi tempi non era stato facile. Mancavano i fondi e spesso la buona volontà non bastava. C’erano di mezzo battaglie politiche, conferenze internazionali, interessi commerciali. Ma a poco a poco, erano riusciti a fornire la comunità di alcune strutture di accoglienza e ad aprire una scuola.
Ahmedin era stato subito entusiasta, aveva dimostrato tanta voglia di imparare ed un’intelligenza vivace, faceva di tutto per poter frequentare le lezioni, fino ad arrivare a saltare il proprio turno nel rifornimento di acqua.
Per non parlare delle cattive amicizie che aveva stretto; spesso infatti, Ahmedin, si recava a far visita ai volontari. 
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La gente del villaggio, ormai abituata a quelle condizioni di vita, non sempre vedeva di buon occhio il loro operato, anzi spesso lo prendeva come l’imposizione di un modo di vita che non era il suo.
Ahmedin aveva legato in particolare con il vecchio Jack, che gli raccontava strane storie su capanne altissime fatte di vetro, e diceva di aver viaggiato con dei carri senza animali… come li chiamava? Ah sì, automobili, o qualcosa del genere.
Ahmedin rimaneva sempre senza parole soprattutto quando Jack gli parlava di posti in cui i bambini erano liberi di andare a scuola senza doversi preoccupare di svegliarsi presto la mattina per andare a prendere l’acqua, poiché quest’ultima usciva da strani pezzi di metallo, che Jack chiamava rubinetti, come per magia.
“Sarebbe bello che fosse così anche a casa“ disse Ahmedin ad alta voce.
Jack lo guardò. Fu colpito da quelle parole, un misto tra ammirazione per quel ragazzino dagli occhi sognanti e la consapevolezza della dura realtà.
“Già! Ma dovremmo portare un lago al villaggio!” aggiunse Ahmedin.
Si diedero un’occhiata e sorrisero entrambi.
Nei sogni di un ragazzino e di un vecchio si avvicinava sempre di più la possibilità di cambiare in meglio la vita di tutti e soprattutto dei bambini.
“Ma vuoi spiegarci cosa ci trovi in questo benedetto lago? Riesci sempre a scappare, le poche volte che vieni con noi te ne stai lì a fissare l’acqua.“
“Voglio portare il lago al villaggio."
“Il lago? Vorrai dire l’acqua! Beh allora prendi i secchi e comincia a riempirli!“
“No. Voglio portare il lago al villaggio cosicché voi tutti possiate venire a scuola invece di andare ogni giorno a prendere l’acqua.”
Venuta a conoscenza degli strani propositi di Ahmedin, la madre si fece molto più severa con lui. Dava la colpa a quel Jack, il bianco che voleva tanto aiutare e invece ficcava strani pensieri nella testa dei ragazzini. Ahmedin fu costretto ad
andare tutti i giorni a portare l’acqua al villaggio, non potendo più andare a scuola.
“Piantala di sognare, vieni a portare i secchi di acqua con noi! “ gli suggerivano tutti. Ma Ahmedin continuava a guardare il lago. Aveva un sogno e non voleva arrendersi.
Passarono i giorni, i mesi, gli anni. Gli abitanti di Malka continuavano imperterriti nelle loro fatiche quotidiane.
Nessuno si era fatto più strane idee, soprattutto dalla partenza di Jack, che aveva portato con sé anche Ahmedin. In un mondo nuovo, diverso, quello in cui erano ambientate le storie che gli aveva raccontato da piccolo. Un mondo che, nonostante tutto, non poté mai sostituire la sua casa e quel lago.
@eritrean_phtography

Per anni, non si ebbero più notizie di Ahmedin. C’era chi diceva: “Ecco la fine che fanno i sognatori“. 
Come non detto, quasi per smentirlo, Ahmedin si rifece vivo. Tornato al villaggio, disse: “ho studiato molto, viaggiato, conosciuto persone e luoghi. E adesso sono tornato. Ho trovato il modo per portare il lago al villaggio. Però avrei bisogno di aiuto. Qualcuno è disposto a venire con me?“
“Sì, io“ affermò una voce oltre la piccola folla degli abitanti, una voce che Ahmedin fu felicissimo di risentire. La voce che per tanto tempo aveva nutrito il suo sogno.
Non si sapeva né quando né come, ma anche Jack era tornato, pronto ad aiutare Ahmedin.
Come descrivere lo stupore generale quando i lavori stavano pian piano giungendo a conclusione? Nessuno riusciva a crederci! Nel giro di qualche mese, anche grazie all’intervento di alcuni abitanti del villaggio che cominciavano a credere nella riuscita del progetto, la costruzione del serbatoio fu terminata. Tutti aspettarono con impazienza la sua apertura, sperando che tutto ciò non fosse solo un’illusione e goccia dopo goccia ecco l’acqua del lago uscire dal rubinetto!
Finalmente anche i bambini di Malka oggi possono andare a scuola, studiare e imparare invece di dover andare a prendere l’acqua al lago. Il sogno di Ahmedin e Jack si è avverato.
Manca ancora molto per un futuro perfetto, ma questo è uno dei passi che si possono fare per avvicinarsi ad esso.

Passo dopo passo, tutto è possibile.

Marcellina Sobczak - Italia

http://www.harambee-africa.org

29 giugno 2018

LA MISTERIOSA SINDROME DEL DONDOLAMENTO CHE UCCIDE I BAMBINI IN SUD SUDAN

Bambino affetto da sindrome del dondolamento in Uganda. credit: AFP PHOTO / Michele Sibiloni
Nel paese africano si contano almeno 20mila casi. I bambini affetti da questa malattia sono condannati a morte perché isolati dalle famiglie e dalla comunità.

“La testa comincia a dondolare come per annuire, ma in modo convulso e ripetuto. Succede spesso poco prima che il bambino stia per mangiare. È una sorta di ipnosi: il bambino inizia ad avere delle piccole convulsioni che sfociano poi in attacchi di epilessia veri e propri. È impressionante”.

Andrea Bollini, di Amref Italia, denuncia in un’intervista a TPI l’allarmante diffusione nel Sud del Sudan di una misteriosa malattia che sta devastando il paese, messo in ginocchio da una feroce guerra civile in corso da quattro anni.

In inglese si chiama Nodding Syndrome (NS), in italiano è conosciuta come “sindrome del dondolamento”. Nel paese africano si contano almeno 20mila casi, ma il numero è impreciso a causa della mancanza di un vero sistema sanitario in grado di monitorare la diffusione del disturbo.

I sintomi
Il nome della malattia deriva da uno dei suoi sintomi: coloro che ne sono affetti sono infatti portati ad annuire con gesti involontari della testa. Tale fenomeno appare solitamente quando i bambini stanno per mangiare o talvolta quando sentono freddo, e dura per circa 20 minuti.
Quando un bambino la contrae, la crescita corporea e del cervello si ferma permanentemente e compare un grave ritardo mentale.

“Comincia con un dondolamento e termina con la morte”, spiega Bollini. La malattia colpisce unicamente bambini di età compresa tra i 5 e i 15 anni.
La sindrome, che affligge i bambini già dai primi anni di vita, li danneggia nei momenti cruciali della loro crescita, fino ad incidere in modo devastante sullo sviluppo del cervello. I bambini perdono la cognizione di sé, la capacità di parlare, di vivere in modo indipendente da chi li accudisce.

La Nodding Sindrome esiste ma nessuno sa con certezza come si diffonda, né tantomeno come curarla.
Il dondolamento della testa al momento di mangiare interferisce con diete spesso già insufficienti, l’assenza di controllo motorio porta i bambini a cascare e ferirsi. Il loro tasso di mortalità per inedia e infezioni è elevato.



Da cosa è causata
“La sindrome è stata riconosciuta ufficialmente come forma epilettica nel 2012, ma sulle cause che possono provocarla esistono solo delle ipotesi: c’è chi ha avanzato tesi sulle scie chimiche, chi sull’avvelenamento delle falde acquifere”, spiega Bollini.

“In realtà sembra quasi certo – dichiarano da Amref – che la sindrome sia collegata alla diffusione di un verme parassita chiamato ‘Onchocerca volvulus’, che è prevalente in tutte le zone toccate dall’epidemia. Questo parassita, trasportato da un moscerino che si riproduce nei pressi dei fiume, è anche associato alla Cecità dei Fiumi, un’altra malattia tropicale negletta che però affligge quasi 8 milioni di persone l’anno, portando alla cecità totale di mezzo milione di individui”.

“Per controllare il parassita basterebbe sbarazzarsi del suo vettore (i moscerini), e per limitarne i danni basterebbe dare a ogni persona a rischio una piccola pillola ogni sei mesi, per due anni, per evitare la riproduzione delle sue larve”.

Come racconta Andrea Bollini, i bambini affetti da questa sindrome sono condannati a morte: “Per una questione culturale, le famiglie di questi minori sono convinte che il nodding sia una patologia che si può trasmettere come il raffreddore, con un contagio. Per questo i bambini che ne sono affetti vengono isolati dalla comunità”.

Le famiglie creano sulle vittime un vero e proprio stigma: allontanano i bambini dalla vita ordinaria, per tutelare gli altri figli.
Il mix tra malnutrizione acuta e convulsioni rappresenta la fase terminale della sindrome, perché un corpo indebolito collassa al sopraggiungere di convulsioni violente.
In paesi dove non esiste una rete assistenziale pubblica, dove le famiglie per sopravvivere sono costrette ad andare a lavorare in campi lontani, il destino di questi bambini, spesso lasciati a se stessi, è necessariamente segnato.

Diffusione
Nella piccola cittadina sud sudanese di Maridi, dove Amref Health Africa ha costruito e gestito un istituto di formazione professionale che è stato lo scheletro del sistema sanitario nazionale, a un certo punto si è iniziato a notare che un numero crescente di bambini mostrava gli strani sintomi della sindrome da dondolamento: la loro coordinazione era bizzarra, non crescevano più e in particolare, quando mangiavano la loro testa iniziava a dondolare.

“Ci sono voluti anni per accorgersi della sua così vasta diffusione nella zone di Maridi, a causa della quasi assenza di un sistema sanitario, di personale medico, di sistemi di monitoraggio epidemiologici, di capacità di valutazione delle realtà sul territorio”, spiega Tommy Simmons, fondatore di Amref Italia.

Nel suo lavoro in Sud Sudan, Tommy Simmons ha incontrato il signor Keffa.

Degli undici figli di Keffa, ne sono rimasti in vita solo 4, gli altri sono morti proprio a causa di questa malattia. Dei quattro figli, almeno tre sono affetti da Sindrome del dondolamento.

“Lo stato dei tre figli malati era evidente”, racconta Simmons. “Un maschio quattordicenne che avrà dimostrato nove anni si aggirava sconclusionato e claudicante tra le case, a malapena reggendosi in piedi; una ragazza dodicenne che ne dimostrava sette o otto di anni se ne stava ammutolita in un angolo; al più piccolo, sui dieci anni, all’apparenza molti di meno, calava un filo di bava dalla bocca”.

“L’unica cosa che Keffa ha per proteggerli sono delle pillole anti convulsioni che gli sono state date in ospedale e che lui usa con parsimonia, quando ha davvero da fare e deve in qualche modo tenerli sotto controllo”, conclude Simmons.

Qui la foto scattata a Keffa e alla sua famiglia:

Come tradizione vuole, i figli morti sono tutti sepolti lì, vicino alle loro case, tra la famiglia che è rimasta in vita.
Lara Tomasetta
www.tpi.it