La foto del bambino morto sulla spiaggia di Bodrum sta commuovendo il mondo. Ma i profughi sopravvissuti continuiamo a non volerli.
Guardatela bene, questa bambina. Ha una giacca pesante, il giubbotto di salvataggio, gli occhi spenti, spaventati. È a Bodrum, in Turchia, e sta per imbarcarsi per Kos. È una profuga, una delle ventimila anime che nell'ultimo mese hanno fatto il medesimo tragitto. Una delle centinaia di migliaia in fuga dalla Siria, dall'Iraq, dall'Afghanistan, da quelle terrificanti zone di guerra in cui le forze del fondamentalismo religioso stanno facendo strame di ogni benché minima parvenza di civilità. Una goccia nel mare di disperazione che sta dirigendo il suo corso verso Occidente. Una, come i tre bambini morti nel medesimo tragitto. Una, come la foto di uno di loro, esanime sulla spiaggia, che i giornali stanno pubblicando, talvolta avvertendo che “le immagini potrebbero urtare la sensibilità”, talvolta no. E che, complice la diffusione virale attraverso i social network, sta facendo il giro del mondo.
Quella fotografia la state vedendo ovunque, non c'è bisogno che ve la mostriamo. Noi vogliamo che guardiate questa. È stata scattata il 20 agosto scorso. Per quel che possiamo sapere, questa bambina è viva e, probabilmente, è tra noi, in Europa, in un campo profughi, o su un treno, o di fronte a un muro di filo spinato. È fortunata, in fondo, nonostante abbia visto nella sua piccola vita cose che noi europei del 2015, probabilmente, nemmeno riusciamo a immaginare. Perchè non è morta nella traversata, come il suo sfortunato coetaneo dalla maglietta rossa. Perché non è diventata una delle schiave dei miliziani dello Stato Islamico che, stando ai loro racconti, sono torturate e violentate ogni giorno. Perché ha ancora una speranza da giocarsi.
I vivi non sono fotografie, né simboli. Si muovono, parlano, costano. I vivi sono un problema.
Ed è quella speranza che agli occhi di molti di noi la rende colpevole. Perché piangere i bambini morti è molto più facile che occuparsi dei bambini vivi. I vivi non sono fotografie, né simboli. Si muovono, parlano, costano. I vivi sono un problema. E possiamo pure raccontarci, per qualche ora, che siamo tutti più buoni, che una soluzione va trovata. E possiamo pure dimenticarci, per qualche ora, dei Sindaci che non li vogliono, dei Presidenti di Regione che non li vogliono, dei cittadini che dalle periferie romane alla marca trevigiana organizzano presidi, barricate e roghi per impedirne l'arrivo, di quelli che in provincia di Cuneo - è notizia di questi giorni, ma la crociata va avanti da settimane - sono disposti a comprarsi un albergo per evitare che arrivino trenta - non trecento, non tremila - anime in fuga dall'apocalisse.
Pensare a questa bambina viva e ai suoi compagni di viaggio, di tutte le età, cancellare loro di dosso la colpa della sopravvivenza, è l'unico modo che abbiamo per onorare quei tre bambini morti. Che nessuna risposta, neanche la più corale, politica, europea avrà senso senza il sussulto morale di comunità in piena sindrome da invasione, rinfocolate da imprenditori della paura capaci solo di strumentalizzare una tragedia umana per capitalizzare consenso politico. Guardatele, quindi, le foto dei bimbi morti. Condividetele, se volete. Usatele, già che ci siete, per ricordarvi che dal 1990 al 2013, di bambini e adolescenti migranti, nel mediterraneo, ne sono morti più di quattrocento. Ma pensate ai vivi. È l'unica cosa che conta.
Francesco Cancellato
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Aggiungo : Del piccolo Aylan (così si chiamava) e del fratello Galip, voglio invece mettere la foto di com'erano e ricordarli così.
Mari
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