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27 aprile 2015

RIFLESSIONI NOTTURNE...


Non riesco a prender sonno e continuo a pensare che ci sono troppi bambini che hanno bisogno d'aiuto. Come fare per aiutarli ? Io continuo a scrivere sul blog, a fare appello al vostro buon cuore, perché purtroppo non sono ricca e non posso fare più di quel che faccio. Anche molti tra voi saranno nella mia stessa situazione e, persino con tutta la buona volontà di questo mondo, non si può arrivare ovunque. Ci sono due progetti attualmente che richiedono il nostro sostegno con urgenza : GLI ORFANI DI LIKONI,

Kenya, di Micaela de Gregorio, che hanno bisogno di un dormitorio per la notte (già in fase di costruzione, come avete potuto vedere da alcune foto postate proprio oggi, ma da terminare al più presto), e I BAMBINI DI NANYUKI,
sempre Kenya, che Andreina e Cleopas stanno cercando disperatamente di togliere dalla strada. Sono a buon punto perché hanno trovato una scuola in disuso, con intorno un terreno da coltivare, di cui una Onlus si è fatta carico dell'affitto. Con questo potranno tenere finalmente i bambini anche a dormire e saranno fuori dai pericoli. Però dovranno comprare dei letti, almeno una ventina. E gli servirà aiuto per un po' di tempo, finché non si organizzeranno meglio, per il cibo e la scuola per i ragazzi. La mia associazione si è offerta di dar loro un piccolo contributo. Ma quel che serve è un aiuto costante, che duri nel tempo e possa consentire di intraprendere un cammino continuo e sicuro. 
Se siamo in tanti a dare una mano, anche con poco ma regolarmente, potranno incanalarsi sulla giusta strada, finché non otterranno anche gli aiuti ufficiali che dovrebbero arrivare, speriamo presto. Gli orfani di Micaela de Gregorio sono anche molto piccoli (sono più di 40) e non possiamo lasciarla sola. Lei già si occupa di loro in tutti i sensi, mettendoci anche il suo denaro, ma da sola è ovvio che non ce la possa fare.
I bambini di Nanyuki sono un po' più grandicelli ma anche tanti di loro sono orfani o comunque abbandonati dai genitori, e il rischio della strada è maggiore (molti annusavano la colla, ad esempio, non avevano da mangiare, né un posto dove stare. Ora nella scuola potranno andare anche a dormire).
Chiedere non è bello, come diceva Cleopas qualche giorno fà, ma non ci sono alternative se vogliamo salvare questi bambini da un destino incerto e pieno di pericoli, sia nel primo che nel secondo caso. 
Se qualcuno di voi ha dei suggerimenti, saranno ben accetti. Se qualcuno di voi è disposto a dare una mano a Micaela, Andreina, Cleopas, me lo faccia sapere. Ripeto : basta poco, ma che sia possibilmente in modo costante. E per chi proprio non può permettersi di più, anche poco, 5 o 10 euro una tantum, va bene lo stesso.
Scusate lo sfogo e grazie a chi vorrà leggere questa nota fino in fondo.
Un abbraccio a tutto questo meraviglioso Cerchio. Buonanotte. Marinella

* * * * *

Postato nel gruppo 

https://www.facebook.com/groups/cerchioapertosullafrica/

24 aprile 2015

LIVIO E LIVIA POLETTI, STORIE DI PARTIGIANI

UN UOMO E UNA DONNA


Le due famiglie di coloni mezzadri lavoravano due poderi confinanti. Quella dei Poletti, di trentun persone, abitava alla Matiossa vecchia, e quella dei Venturini, rimasti in dopo la morte del padre, stava alla Matiossa nuova. I due fondi, di proprietà dell’Amministrazione degli Ospedali d’Imola, erano situati fra il fiume Sillaro ed il canale Ladello nella Bassa Imolese, più vicini a Balìa che a Sesto. La terra era divisa in grandi rettangoli delimitati nel verso lungo dai filari delle viti e nel verso corto dalle cavedagne. Vi si coltivavano cereali, barbabietole, foraggi. Attorno alle case c’erano alberi da frutta e vicino al pozzo l’orto protetto da un fitto steccato per ostacolare l’accesso delle galline che razzolavano sull’aia. Nelle stalle ruminavano le mucche, nei porcili grugnivano i maiali sempre in attesa di cibo, mentre nel fienile, al pianoterra, si rincorrevano nelle gabbie i mansueti conigli.

Livia era della famiglia Venturini e Livio della famiglia Poletti. Nel millenovecentotrenta, quando i due si fidanzarono, lui aveva ventidue anini e lei diciassette. Il fidanzamento legittimava agli occhi della gente un amore nato e cresciuto negli incontri prima casuali poi cercati durante il lavoro nei campi.
Questo non fu però il solo evento importante di quell’annata. Il 1930 fu infatti per Livia e per Livio un anno davvero cruciale. Il giovane, che militava nell’organizzazione comunista clandestina, costituita e diretta da un gruppo di compagni più anziani tra i quali c’era Amilcare il fratello maggiore di Livia, non amava molto parlare, preferiva ascoltare ed agire. Egli era stato uno dei più attivi a mettere le bandiere rosse sugli alberi nella notte precedente il Primo Maggio.

La ragazza condivideva le sue idee. II padre era stato socialista, i fratelli maggiori Amilcare e Gino erano comunisti. Quando, in settembre, i carabinieri, dopo aver rovistato nelle case di Nicola Andalà e di Giulio Gardelli erano andati a fare la perquisizione dai Venturini, ella fu sveltissima a nascondere nel fienile il pacchetto di stampa antifascista depositato provvisoriamente da Amilcare in cantina.
Subito dopo Livia aveva aderito alla cellula femminile. Sempre quell’anno, proprio al suo scadere, nella vita di Livia e di Livio si verificò il primo forzato lungo distacco.

Nella notte precedente il sette novembre i comunisti di Sesto ed Osteriola vollero celebrare la grande rivoluzione socialista di Russia. Quelli di Sesto collocarono una bandiera rossa sul balcone della Casa del Fascio del paese mentre quelli di Osteriola la fissarono su un albero accanto al ponte di Massalombarda all’incrocio tra la San Vitale e la Selice. Livio prese pane all’azione. In dicembre si scatenò l’ondata degli arresti: 52 compagni vennero portati a Bologna nel carcere di San Giovanni in Monte. Dalle case dei Poletti portarono via Livio coi fratelli Enrico e Guerrino ed il cugino Angelo, dalla casa Venturini presero Amilcare e Gino.

Durante la fase istruttoria “gli imputati di costituzione del PC d’Italia, di appartenenza allo stesso e propaganda” vennero custoditi nel penitenziario di Castelfranco Emilia. Le donne di Sesto ed Osteriola si facevano in bicicletta oltre cento chilometri di strada tra l’andata e il ritorno per il colloquio di un’ora consentito dal regolamento. Anche Livia compì alcune volte quel tragitto per vedere Livio. Poi il trasferimento al carcere di Regina Coeli a Roma per il processo del Tribunale Speciale e quindi, a sei mesi dall’arresto, le condanne. Mentre Gino Venturini e Angelo Poletti se la levarono in istruttoria con due anni di “ammonizione”, Guerrino ed Enrico Poletti ed Amilcare Venturini furono condannati a cinque anni di confino da scontare in paesini della Calabria, il primo a Longobuco, il secondo a Celico, il terzo a Oriolo. A Livio fu inflitta una delle pene più dure: tre anni e tre mesi di reclusione da scontare nel carcere di Saluzzo di Cuneo. Per fortuna le pene furono ridotte dall’amnistia concessa nell’Ottobre 1932 per il Decennale della Marcia fascista su Roma. Tutti i confinati e i carcerati di Sesto e Osteriola tornarono alle loro case, naturalmente in stato di vigilanza speciale. Anche i Poletti e i Venturini vennero rilasciati. Ma essi non poterono più rientrare nei poderi di Matiossa vecchia e di Matiossa nuova tra il Sillaro e il Ladello. Subito dopo gli arresti, l’Amministrazione degli Ospedali di Imola aveva inviato lo sfratto alle due famiglie dichiarando… “di non tollerare famiglie coloniche nel cui ambito abbian potuto prosperare cospiratori e nemici del supremo ordine nazionale”.

Nel novembre 1931, il giorno di San Martino, i Poletti si erano trasferiti a Castel Bolognese in un Podere a mezzadria del Conte Ginnasi, mentre i Venturini si erano trasformati in braccianti agricoli traslocando in una casa di via Buttaceci nel Comune di Mordano. Fu appunto a Mordano che nell’aprile 1933 Livio e Livia celebrarono il loro matrimonio, fu qui che ebbero la boro prima abitazione e fu qui che nacque la figlia Vanda. Dapprima Livio trovò un’occupazione nei lavori di sterro della ferrovia Imola-Massalombarda, poi riuscì a farsi assumere nel Gruppo Facchini Imolesi. Era un giovane sano, robusto, energico. Il lavoro gli piaceva, i compagni erano simpatici, la paga era migliore. Lasciarono Mordano per andare ad abitare a Sasso Morelli dove si era trasferito il fratello Amilcare dopo che il podestà, il segretario del Fascio e il Maresciallo dei Carabinieri l’avevano convocato in Comune per dirgli: “Senta Venturini, qui a Mordano di gente come Lei c’è solo Lei. Perciò se Lei se ne va, ci fa un piacere”.

Nel 1936 Amilcare fu arrestato per la seconda volta e condannato a cinque anni di confino all’isola di Ventotene con la seguente motivazione: “Irriducibile comunista, s’abbandonò nei locali del Dopolavoro d’Imola a una sfacciata allegria quando seppe della vittoria del Fronte Popolare in Francia”. Livio e Livia andarono a vivere assieme alla moglie di Amilcare e vi restarono fino a quando questa se n’andò coi figli a Varese presso una sorella. Livio e Livia e la figlia Vanda lasciarono allora Sasso Morelli andando a vivere ad Imola, in via Emilia 284, proprio in quella casa dove c ‘è la piccola lapide con l’iscrizione:

LIVIO POLETTI                          LIVIA VENTURINI
1908-1944                                  1913-1944
CADUTI PER LA LIBERTA'

A Imola Livio continuò il suo lavoro di facchino mentre Livia si occupò come domestica ad ore presso una vecchia signora. Il filo della loro vita si dipanò per qualche anno senza strappi particolari. Ogni tanto si recavano con la bambina a Castelbolognese a fare visita ai parenti di lui o a Bubano dove al Pontecosta stavano ora i parenti di lei.

Nel 1940 ci fu l’entrata dell’Italia in guerra. Tutto cambiò nella vita delle famiglie italiane, comprese quelle dei Venturini e dei Poletti. Alcuni fratelli di Livio e di Livia dovettero partire per il fronte, i prodotti alimentari cominciarono a scarseggiare. Vanda frequentava la scuola ed era in piena crescita. E si sa che quando i bimbi crescono occorre nutrirli come si deve. Anche Livio, con quel suo lavoro, aveva bisogno di una adeguata alimentazione.

Poi venne il 25 luglio 1943… Finalmente! Livio e Livia parteciparono all’esplosione di gioia della popolazione imolese. Con loro c’era anche Amilcare, rientrato a Imola da Varese dove aveva raggiunto la famiglia allo scadere della pena. Quindi seguì l’8 settembre con l’occupazione tedesca e la rinascita del fascismo in veste repubblichina. Livio e Livia entrarono nella Resistenza. Livio militò nei primi gruppi armati: fu lui a giustiziare la sera del 6 novembre 1943 in via Luigi Sassi il Console della Milizia fascista imolese Barani. La sera stessa Livio venne arrestato con altri sei compagni sospettati d’aver compiuto 1’attentato. Stava cenando quando i fascisti repubblichini si presentarono. In una tasca della giacca aveva la pistola.

“Venga con noi”. – dissero i fascisti.
“Un momento, mi cambio d’abito e vi seguo”. – disse Livio.

Livia capi al volo. Prese la giacca del marito, salì nella stanza di sopra, buttò la pistola dalla finestra giù nel cortile e scese porgendo al marito una giacca diversa. Livio fu trattenuto in carcere a Bologna e fu sottoposto a numerosi interrogatori nei quali egli negò sempre ogni cosa, finché dopo quaranta giorni venne rilasciato. In marzo i fascisti tornarono a cercarlo. Stavolta l’accusa era ben precisa e Livio, avvertito in tempo, non si fece trovare nascondendosi presso una famiglia di contadini sulle colline di Castelbolognese. Qui apprese la notizia del ferimento di Livia nella manifestazione delle donne nella Piazza del Municipio a Imola.

La mattina del 29 aprile 1944 Livia era scesa appositamente in città da Riviera, una borgatina tra Casalfiumanese e Borgo dov’era andata a rassettare la casa in cui era sfollata la vecchia signora.
Le compagne dirigenti dei Gruppi di Difesa della donna l’avevano avvertita in tempo e lei non voleva assolutamente mancare. La manifestazione era stata indetta per protestare contro le autorità fasciste che non fornivano regolarmente la prescritta razione di grassi alimentari. Livia arrivò in piazza e fece gruppo con le donne giunte da Sesto Imolese tra le quali aveva parecchie amiche. Assieme a loro gridò le rivendicazioni e attese il ritorno della delegazione recatasi a parlamentare con il Commissario prefettizio Bivona. Quando la delegazione ritornò dicendo che Bivona era assente, anche Livia urlò più forte contro i brigatisti neri.

Poi la tragedia: l’arrivo sulla piazza dei pompieri, le donne che strappano dalle loro mani il tubo dell’acqua e ne rivolgono il getto contro i militi fascisti, la violenta zuffa con loro, il sopraggiungere degli altri fascisti… che sparano sulla folla. Livia avvertì un colpo tremendo alla schiena e non poté più reggersi in piedi. Si afflosciò sull’acciottolato. Accanto a sé scorse distesa per terra, gemente, la Rosa Zanotti di Pontesanto, una vedova madre di sei figli. Quando le compagne di Osteriola la sollevarono, Livia sentì un caldo fiotto di sangue inondarle il dorso. Si lasciò condurre sotto il porticato dove fu fatta sedere appoggiata ad una colonna. Da quel posto ella vide il corpo di Rosa disteso su un carretto che si allontanava mentre una voce diceva: “Non c’è più nulla da fare!”. Ella raccolse tutte le forze per inveire contro gli assassini e incitare le compagne: “Fascisti maledetti, basta con la guerra! Ridateci i nostri uomini! Pane, non cannoni!”. Vide arrivare i gendarmi hitleriani con i grandi elmi, le placche ovali sul petto, i grossi gambali, i fucili minacciosi. Li vide circondare la piazza. Avvertì anche quando la caricarono sull’autoambulanza, poi tutto s’annebbiò, e non vide e non sentì più nulla.

Cominciò per Livia la dolorosa via crucis che si sarebbe conclusa quarantacinque giorni dopo a Bubano. Dapprima all’ospedale d’Imola, poi all’ospedale di Bologna, poi nella casa della sorella Linda a Bubano. Una domenica mattina, in compagnia del fratello Amilcare e del dottor Agostino Mongardi di Sasso Morelli, arrivò il professor Francesco Delitala, primario dell’Ospedale Rizzoli, condotto qui in auto dalla Fantuzza dov’era sfollato. Egli visitò scrupolosamente Livia, la rincuorò, quindi fuori di casa spiegò: “Ha la spina dorsale interamente spezzata, è come un corpo tagliato in due, in un caso simile io sono impotente…”. Durante la sua lunga agonia Livia intravide qualche volta accanto al suo letto il viso di Livio che sopraggiungeva di nascosto sfidando l’arresto, e di Vanda che era ospite della nonna a Bubano. Quando le sue condizioni peggiorarono Livia venne nuovamente ricoverata all’Ospedale di Imola, e quando il primario professor Sandrini annunciò che era sopraggiunta la fine, fu riportata a Bubano dove spirò il 13 giugno alle tre del pomeriggio. Aveva trentun anni.

Il funerale, in forma civile, si tenne a Bubano il giorno quindici. C’era una grande folla di donne e di uomini, e c’erano tanti fiori, bianchi e rossi. Accanto alla bara camminavano il fratello Amilcare, le sorelle Linda e Rina, le dirigenti comuniste Nella Baroncini, Adelfa Rondelli, Prima Vespignani, Mafalda Contavalli Andalò, Stellina Tozzi, e tante compagne e compagni di Sesto, Osteriola, Mordano, Bubano. Nascosto tra la gente c’era pure Livio. Il corteo funebre si mosse dalla casa di Via Lume 49 e raggiunse centro della borgata, svoltò per via Chiesa e prese la stradina del cimitero. I fascisti non si fecero vedere. I carabinieri rimasero chiusi in caserma. La bara con la salma di Livia fu deposta in un loculo del Cimitero di Bubano dove rimase fino al 21 ottobre 1945, quando fu riesumata e trasferita a Imola sulla Piazza del Municipio. E lì, allineata con quelle dei caduti della Trentaseiesima Brigata Garibaldi, la bara di Livia si trovò accanto a quella su cui era inciso il nome di suo marito Livio.

La richiesta di raggiungere i partigiani sulle montagne fu avanzata da Livio subito dopo la morte della moglie. I dirigenti della Resistenza imolese lo accontentarono. Un pomeriggio, alla fine di giugno, salutato dai cognati Amilcare e Linda, dalla sorella Velia e dalla figlia Vanda, egli lasciò la casa-rifugio sulle colline sopra Castelbolognese. Gli fu detto di essere prudente, di non preoccuparsi per la figlia perché di lei avrebbero avuto cura sia i Poletti che i Venturini, e fu abbracciato. S’incamminò per il sentiero che portava in direzione del tramonto del sole, verso Codrignano, dov’era fissato l’incontro con la guida che avrebbe accompagnato lui e gli altri compagni sulle montagne controllate dalla Trentaseiesima Brigata Garibaldi. Raggiunta la formazione, Livio venne aggregato alla Compagnia Comando con mansioni di magazziniere. Vedeva spesso il comandante Bob, il capo di Stato Maggiore Bruno, il vecchio Roberto, il Moro, Corrado. Strinse amicizia con Topi, che già conosceva. Nei mesi di Luglio, Agosto, Settembre, visse tutte le vicende della Brigata, ed ebbe naturalmente molto da fare negli spostamenti dal Bastia al Carzolano, da Monte Fabbro a Cortecchio e a Sommorio, e nel trasferimento verso la zona tra la Strada Casolana e la Faentina,

Proprio qui, sulle colline tra le valli del Senio e del Lamone, Livio visse l’undici ottobre la sua ultima giornata. Il Comando era attestato a Ca’ di Gostino nei pressi della Chiesa di Santa Maria di Purocielo. Più in alto, non molto lontano, c’erano già le truppe alleate, e il Comando aveva deciso di sfondare le linee tedesche per raggiungere l’Italia liberata. Ma il nemico si era mosso per tempo a contrastare il progetto dei partigiani. …Una colonna di quattrocento tedeschi, saliti nottetempo da Brisighella e Fognano, attaccò alle sei del mattino il Comando di Brigata. Una raffica uccise Attila. Topi, che era di guardia, corse a svegliare quelli che dormivano. Svegliò anche l’amico Livio che aveva la febbre alta, e gli caricò lo zaino sulle spalle pregandolo di mettersi in salvo.

A Ca’ di Gostino non c’erano più di trenta uomini, e la loro resistenza durò una mezz’ora. Il colonnello Saba, immobile davanti alla porta, vuotò tutti i caricatori del suo sten prima di morire. Poco discosto cadde l’ex brigadiere dei carabinieri di Casola Valsenio. Quando i caduti furono di numero pari ai vivi, Bob, con alte grida, chiamò i superstiti accanto alla casa e ordinò la ritirata verso la Casa del Piano di Sopra dove si trovava la compagnia di Tito. Il ripiegamento fu difficile. Gino ci riuscì a sbalzi, assieme a Uragano e a Silvio Melloni che comandava il plotone comando. Anche Bob, Bruno e Corrado ce la fecero. Nerio s’appiattò per un attimo a fianco di Ivo in un avallamento, poi corse una ventina di metri e si buttò a terra. Voltandosi vide quando Ivo, ferito gravemente, si sparò con la pistola alla tempia per non cadere vivo nelle mani del nemico. Topi corse verso il monte dietro il fienile. Passando nei pressi del pagliaio scorse, distesi l’uno accanto all’altro, in una pozza di sangue, Roberto il vicecommissario, e Livio il magazziniere, già entrambi nel sonno della morte…

A liberazione avvenuta, il 21 ottobre 1945, le bare con le salme di Livia e Livio vennero trasportate assieme alle altre dalla Piazza del Municipio di Imola fino al cimitero del Piratello e collocate nel Sacrario dei Caduti della Resistenza una accanto all’altra. La pace era stata conquistata. Il fascismo era stato sconfitto. Una nuova pagina di storia iniziava per il mondo e per l’Italia. E si sa che la storia, fatta dagli uomini, per gli uomini, coinvolge i destini personali dei singoli uomini.

Il racconto è nato costruito utilizzando una
testimonianza orale di Amilcare Venturini,
il saggio di Sergio Soglia “Le donne imolesi insorgono”,
un brano del libro di M. e N. Galassi
“Resistenza e 36.ma Garibaldi”.

Le circostanze vollero che io, allora bambina, non vedessi morire mio padre e mia madre. Lo seppi a voce, per entrambi, dai parenti. Fui sempre vicino a mia madre nei quarantacinque giorni successivi al suo ferimento mortale. In quei tristissimi giorni di agonia, mio padre veniva spesso a trovarci, sempre di notte per sfuggire all’agguato del brigatisti neri di sorveglianza nei dintorni. Io lo sapevo, e senza dire niente a nessuno, stavo spesso anche più di un’ora ad aspettarlo dopo il tramonto, seduta sul ponte dove la strada proveniente da Mordano incontra quella di Bubano. Erano le uniche volte in cui ormai potevo vederlo: i fascisti lo cercavano e dove si nascondesse non lo sapevo. Era giugno. E il tredici di quel mese la mamma morì.
Dalla testimonianza di Vanda – in “L. Morini: Per essere libere…”

“… Il tredici Livia morì. Mezanòt mi incaricò di andare a Imola a ordinare i garofani rossi, ma per ordine dei fascisti i fiorai non potevano tenere in quei giorni i garofani rossi. Lo riferii a Mezanot che mi fece tornare a Imola ad ordinare fiori bianchi. E con quelli facemmo il funerale…”.
Dalla testimonianza di “Maria” – in “L. Morini: Per essere libere…”
Livio Poletti a Mulino Boldrino (foto tratta da : "La battaglia di Purocielo", di Ferruccio Montevecchi)


www.castelbolognese.org


20 aprile 2015

... NON ORRORE TRA LE ONDE - L'ANGOLO DI SOFIA

C'è un lavavetri
di colore
davanti la Cattedrale.
Mia mamma,
una volta,
gli ha detto:
"Ciao, come ti chiami?"
Lui,
le ha risposto

e
da quel giorno,
quando la vede,
le corre incontro,
le sorride
e
con occhi lucidi
le dice:
"Ciao mamà..."

È bastato
chiedergli
come
si chiamasse
perchè
lui sentisse
l'odore di casa.
L'odore di mamma
per la quale
era
il più
speciale tra gli uomini
e non un numero.

L'estate scorsa,
degli uomini
salvati
dal mare
ridevano davanti
a una commedia
che non capivano.
Gli ho chiesto:
"Do you know?"
Loro mi hanno guardata
e uno ha risposto:
"No,
But smile
is beautiful.
And if we Can,
We smile".
È bastato chiedergli
se capissero
il motivo per cui
stavano ridendo
perché
mi ricordassero
che a volte,
ridere
è
IL movente
senza motivo.

Io ho pensato
che se in Sicilia
ci fosse la guerra,
cercherei
di scappare
anch'io.
Forse
lascerei mia madre,
mio padre,
Palermo.
Forse,
su un gommone,
mi porterebbero
in Francia,
in un centro
d'accoglienza,
e io
finirei col fare
la lavavetri.
Non sarei
più Sofia Muscato,
con una famiglia
che l'ha cresciuta,
con dei sogni
ancora vivi
e l'amore tra le mani,
ma una siciliana
qualunque
senza storia,
senza affetti,
senza ricordi.
Forse,
mi farei bastare
degli spiccioli,
ma perché
gli spiccioli
sono
la cura
di chi
non ha alternativa.
Forse,
sarei costretta
a sorridere
ai semafori
anche
se la mia giornata
fosse piena
di "No",
indifferenza
e disgusto.
Forse,
guarderei
il mare
e
aspetterei amici,
parenti,
il mio ragazzo.
E forse
li aspetterei
per non vederli
arrivare mai...
O per vederli
arrivare avvolti
dentro teli bianchi
che
aggiungono
dolore al dolore.

Io sono stata
solo più fortunata
di tutti
i ragazzi di colore
che incontro
quotidianamente.
Io ho un nome,
una terra,
una radice.
Il mare è la mia estate.
Non il cimitero
della mia gente.
Vi prego,
accusare
gli immigrati
di essere
la causa
della rovina
dell'Italia
è prestare il fianco
a gente
che punta
il dito
su chi
non può difendersi
per nascondere
il marcio
che la classe politica
e dirigente
di questo paese,
ha creato fino a ora.
Vi prego,
è il momento
di essere
intelligenti
e
di non cedere
all'emotività cieca
di arruffapopolo
senza dignità.
Noi siamo
ancora umani.
Noi siamo
ancora
capaci di grandi voli
del cuore.
Oggi,
l'umanità
sana
che DEVE cambiare
le cose,
è scesa in fondo al mare
per
piangere il dolore
del mondo
e ricordargli
che il mare
dev'essere solo
orizzonte verso l'infinito.
Non orrore tra le onde.

* * * * *

Dolore, rabbia, tristezza infinita... non riesco ad esprimere ciò che provo... qualsiasi parola sarebbe riduttiva rispetto al mio stato d'animo. Che è lo stesso, ne sono certa, per tutti i volontari del mondo e per chi, come noi, ama il prossimo senza distinzioni di colore. Apparteniamo ad una sola razza, quella UMANA. Ho preferito affidarmi alle parole di Sofia, intense e significative, perché rispecchiano il mio e il nostro pensiero. Il pensiero di tutti gli uomini di buona volontà e sentimento.

17 aprile 2015

GRAZIE GINO...

EBOLA - Dalla pagina di Facebook di Gino Strada



Questa volta ci siamo, l’epidemia è sotto controllo. Ci sarà “una coda”, pochi casi sporadici nel Paese, ma questa epidemia in Africa occidentale è stata vinta, finalmente. Il nostro Centro non ha più ammalati, solo pochi convalescenti che saranno dimessi nei prossimi giorni. E anche per me, dopo più di 6 mesi, è finalmente ora di tornare a casa. Grazie a tutto il nostro staff, alle centinaia di persone che si sono impegnate con passione e professionalità. Grazie a tutti voi che ci avete incoraggiato e sostenuto in questa esperienza durissima e rischiosa, da soli non ce l’avremmo fatta.

* * * * *

Pochissime parole per esprimervi tutta la nostra gratitudine  : 

Grazie Gino, grazie Emergency, grazie a tutti i suoi volontari. 



13 aprile 2015

DONNE PARTIGIANE - SIRIA, LA STORIA DELLE "DONNE CORAGGIO" CONTRO L'ISIS

Violentate. Sfruttate. Estromesse dalla società. Eppure combattono il Califfato. Sono le ragazze in guerra. Sotto le bombe di Aleppo. O in battaglia a Kobane.
In quattro anni di una guerra che ha provocato più di 220 mila morti e nove milioni di rifugiati e sfollati, il prezzo più alto in Siria lo pagano le donne. Ancora una volta.
A volte obbligate ad assumersi la responsabilità di famiglie lacerate dal conflitto, spesso vittime di abusi e sfruttamenti.
Nell’inferno della guerra le donne vivono una doppia tragedia: minacciate da scontri armati, bombardamenti, e allo stesso tempo spogliate della loro autonomia e del loro ruolo sociale e professionale.
VIA DALLA VITA PUBBLICA. In molte aree del Paese hanno perso la speranza e la possibilità di esercitare le proprie capacità nella vita pubblica, per colpa di un estremismo prima sconosciuto.
Oggi le milizie esercitano un controllo molto stretto sui loro comportamenti, e chi prima lavorava e si muoveva liberamente si chiude in casa per paura di ritorsioni.
IN SOCCORSO A CHI SOFFRE. Le donne siriane fuori e dentro il Paese lottano per la loro sopravvivenza e quella della loro famiglia, ma tante non si accontentano e reagiscono, cercando di riappropriarsi del loro posto nella società.
La Siria di questi anni bui è illuminata dalle mille storie di donne che si impegnano nel soccorso e nel sostegno a chi è più in difficoltà o che prendono le armi per difendere la libertà e il futuro di tutti.


Tra i “Caschi Bianchi” della protezione civile di Aleppo e Idlib, due città teatro degli scontri più duri del conflitto, ci sono 60 donne che lavorano per soccorrere le vittime degli attentati e dei bombardamenti.
NUDE E IN TRAPPOLA. «Siamo l’unica speranza», dice Diala Merie, una di loro, «per le donne e le ragazze intrappolate sotto le macerie. La forza delle esplosioni spesso strappa i vestiti di dosso. In questo caso, le comunità più conservatrici vogliono essere aiutate da altre donne e possiamo intervenire solo noi».
Studentesse, insegnanti o mamme che rischiano la vita a ogni intervento per un crollo improvviso o per il riaccendersi degli scontri. Si sono messe volontariamente al servizio della comunità.



«CAMBIAMO MENTALITÀ». Un lavoro rivoluzionario secondo Diala. «Non stiamo solo salvando vite umane, stiamo anche affermando il nostro ruolo di donne e cambiando la mentalità. Questo, una volta, era pensato come un compito esclusivo degli uomini. Siamo deluse, abbiamo cominciato a vedere la realtà degli uomini e l’ipocrisia della nostra società. Sui campi di battaglia sono gli uomini che prendono le decisioni, ma sono le donne che devono vivere con le conseguenze di quelle scelte».

Al telefono da Erbil, in Iraq, Chanour racconta la sua storia.
«Ho 23 anni, sono curda siriana e studiavo ingegneria all’Università di Aleppo. Gli orrori che ho visto compiere dagli integralisti nei due anni di guerra passati in città mi hanno convinta che non potevo restare inerte. Ad Aleppo avevo partecipato ad alcuni scontri. Quando l’Isis ha iniziato la sua campagna nel Kurdistan ho deciso di raggiungere i fratelli curdi in armi».
Chanour si unisce all’Ypj (Forza di protezione femminile) dell’Ypg (Forza di protezione del popolo curdo).
Partecipa alle battaglie della regione di Mosul e alla liberazione di Kobane. «Ho solo una paura, quella di cadere viva nelle mani dei jihadisti. A Kobane molte di noi hanno preferito la morte. Arin Mirkan, il mio capitano, è l’esempio da imitare per tutte le donne curde che combattono. Aveva 24 anni ed era madre di due bambini. Rimasta isolata in un sobborgo della città e a corto di munizioni, piuttosto che farsi catturare viva si è fatta esplodere vicino a una postazione dell’Isis, uccidendo una decina di jihadisti e distruggendo un mezzo blindato». Ora Chanour sta combattendo per la liberazione di Tikrit.
Alla periferia di Damasco sconvolta da quattro anni di bombardamenti e di assedio a non arrendersi ci sono anche le donne dell’associazione Zahret al-Mada’en.  
Il loro centro sociale, a Hajar Al-Aswad, era il solo punto di riferimento per le donne e i bambini in difficoltà di tutta l’area.
Poi il quartiere, confinante con il campo palestinese di Yarmouk, è diventato il fronte più caldo della battaglia per Damasco.
ALIMENTI E KIT PER L'INVERNO. La guerra, però, non ha fermato le donne di Zam, che hanno trasferito il centro in una zona più tranquilla della città.
L’attività principale oggi è la distribuzione di alimenti e kit per l’inverno.
«Quello che mi stupisce delle nostre donne», dice Ragda, direttrice dell’associazione, «è la voglia di andare avanti. Le volontarie attraversano la città per raggiungere la nuova sede, magari scortate da un familiare, le mamme impiegano anche tre ore pur di portare il figlio disabile al corso di sostegno».
Donne che non hanno voluto limitarsi a distribuire alimenti  e che tra mille difficoltà hanno fatto ripartire altre attività.

UNO SVAGO PER I BAMBINI. «Sembra quasi impossibile che in uno spazio così piccolo si riesca a realizzare momenti di svago per i più piccoli e tenere i corsi di recupero scolastico».
Far giocare, far studiare, distribuire un pacco di lenticchie. Piccole cose, ma «il sorriso di un bambino che scopre nel pacco l’halaweh (salsa di sesamo molto dolce), o di una madre che vede il figlio studiare serenamente valgono tutta la fatica e la paura che ogni giorno affrontiamo».
Sabah Hameye, giornalista siriana, spiega che «le donne devono difendere se stesse e i loro figli e trovare il pane, siano vedove o separate dai loro mariti».
Poi aggiunge: «Non è facile vivere in Siria come una donna. Stiamo affrontando molte cose difficili, e lo stiamo facendo con coraggio. Abbiamo il potenziale per essere i principali attori politici, ma siamo occupate a prenderci cura di tante cose, così non possiamo impegnarci in politica nella stessa misura deglii uomini. I risultati sono sotto gli occhi di tutti».
Mauro Pompili
www.lettera43.it

11 aprile 2015

QUEL CROMOSOMA IN PIU' CHE VUOL DIRE AMORE

Il bambino affetto da sindrome di down che ha inventato la catena del bacio. La storia di Mirko e del suo amore per la vita.


Mio figlio è nato con un cromosoma in più.
Trisomia 21, mi hanno detto i medici, 24 ore dopo che con un parto cesareo l'ho messo al mondo. Una condizione cromosomica causata dalla presenza di una terza copia del cromosoma 21. Un'unità strutturale del dna, che rende mio figlio speciale.
Avevo 28 anni, quando è nato Mirko. Ho desiderato questo figlio intensamente. Io e mio marito Alessio abbiamo aspettato 7 anni, prima di stabilire che fosse arrivato il nostro momento. Ho vissuto una gravidanza bellissima.
Non ho fatto l'amniocentesi, per via dell'età. Ho pensato che non fosse necessario. Tutti gli esami effettuati durante i 9 mesi di gestazione, non avevano rilevato nulla di anomalo.
Il tri-test, la traslucenza nucale, l'ecografia morfologica; dopo ognuno di questi approfondimenti, i medici pronunciavano un'unica sentenza: mio figlio era perfettamente sano. Non avevo nulla da temere.
Per una pura casualità, durante l'esame tridimensionale, che ci avrebbe svelato in anticipo il viso di nostro figlio, Mirko teneva la manina destra appoggiata sugli occhi, che celava quel caratteristico taglio orientale, che non avrebbe lasciato dubbi, circa la sindrome di cui soffriva. Quella mano destra nascosta, dietro al corpo, che nascondeva una piccola malformazione della mano, che avrebbe allertato i medici. "Tuo figlio gioca a nascondino", mi ha detto la dottoressa. "Ma il cuore è a posto, la forma della testa perfettamente nella norma. Auguri, mamma e papà".

Ecco cosa ci ha detto, la dottoressa. E Mirko? Giocava davvero a nascondino? O non voleva metterci paura? Forse ha pensato che avrebbe preferito svelarci i suoi occhi, il giorno in cui avessimo visto il suo viso. Avessimo accolto il suo pianto, o il suo primo sorriso, stringendo la sua mano tra le nostre.
Così ci avrebbe detto: Eccomi mamma e papà, sono io. Sono così. E avremmo iniziato insieme la nostra vita.
Mio figlio è nato, ma con un cromosoma in più.
Eppure avevo sognato quel momento per tutta la gravidanza. Stringendo mio figlio tra le braccia, in un momento di reciproco scambio del calore dei nostri corpi, avrei versato con mio marito lacrime di gioia. Ne ho versate molte, di lacrime. Ma erano lacrime di paura.
Avevo paura di non essere in grado di gestire una persona appartenente a un mondo per me sconosciuto. Avevo paura che ci lasciassero soli. Poi abbiamo scoperto il Bambino Gesù. Lo staff di specialisti dedicati al paziente down, come mio figlio. Si prende cura di tutti questi bambini speciali, con un cromosoma in più. Monitorano il loro sviluppo, l'andamento delle loro funzioni. E li aiutano a crescere. Intorno a noi, una squadra di specialisti che non ci fanno sentire mai soli. E poi il contatto con tante famiglie che vivono la nostra stessa condizione.
A volte siamo lì, con i nostri piccoli, con quel cromosoma in più. Guardiamo gli altri genitori, con i loro figli, che la società definirebbe "normali". Mi domando se il loro sorriso è diverso dal nostro. Se sono più felici di noi.
Mi rispondo di no. Il Signore ha letto l'amore infinito con cui ho desiderato questo bambino. Per questo ha deciso di mandarmene uno speciale.
Mirko è così. Speciale.
E' gioioso, allegro. Affettuoso. Si sente un bambino fortunato. Ha insegnato a me e a mio marito la catena del bacio. Lui bacia me, io bacio il papà, il papà bacia lui. Poi vuole che ci stringiamo tutti e due a lui, per baciarlo.
Mirko ha un cromosoma in più che gli regala degli occhi allungati, una fisicità leggermente diversa da quella degli altri. Ma conduce una vita serena, ed è felice. Stiamo lavorando per la sua autonomia. Per colmare i vuoti che la società potrebbe riservargli, quando sarà più grande. Per garantirgli un futuro, una condizione che sia il più possibile vicina a quella di un adulto senza quel cromosoma in più.
Ho versato lacrime di paura. Ma ora so che il cromosoma in più di mio figlio, è quello dell'amore. E' questa felicità travolgente che lo fa sorridere della vita. E' la forza che sprigiona. E' la capacità che ha di guardare il mondo con il cuore. 
E' questo che Mirko sa fare. Sa sorridere con tutto il corpo. Con gli occhi, con la bocca, con il cuore. E quel sorriso riscalda la nostra vita e di tutti quelli che lo conoscono.
Quel cromosoma in più, che è una catena d'amore.

Fonte : Bambino Gesù Ospedale Pediatrico
www.ospedalebambinogesu.it

02 aprile 2015

LEGGENDE DI PASQUA

La leggenda della passiflora
Tanto tanto tempo fa, la primavera fece balzare dalle tenebre verso la luce tutte le piante della Terra, e tutte fiorirono come per incanto.
Solo una pianta non udì il richiamo della primavera, e quando finalmente riuscì a rompere la dura zolla di terreno, la primavera era già lontana…
- Fa’ che anch’io fiorisca, o Signore! – pregò la piantina.
- Tu pure fiorirai –  rispose il Signore.
- Quando? –  chiese con ansia la piccola pianta senza nome.
- Un giorno…  - e l’occhio di Dio si velò di tristezza.
Era ormai passato molto tempo, la primavera anche quell’anno era venuta e al suo tocco le piante del Golgota avevano aperto i loro fiori.
Tutte le piante, fuorché la piantina senza nome. Il vento portò l’eco di urla sguaiate, di gemiti, di pianti: un uomo avanzava fra la folla urlante, curvo sotto la croce, aveva il volto sfigurato dal dolore e dal sangue…
- Vorrei piangere anch’io come piangono gli uomini – pensò la piantina con un fremito.
Gesù in quel momento le passava accanto, e una lacrima mista a sangue cadde sulla piantina pietosa…
Subito sbocciò un fiore bizzarro, che portava nella corolla gli strumenti della passione: una corona, un martello, dei chiodi… era la passiflora, il fiore della passione.

La leggenda del pettirosso
Gesù era sulla Croce. Le spine della corona che stringeva la fronte si conficcavano nelle sue bianche
carni facendo uscir grosse gocce di sangue.
Un uccellino, che volava poco distante, vedendo la sofferenza di Gesù, sentì tanta pietà per Lui.
Gli si avvicinò con un leggero pispiglio.
Cosa disse l'uccellino? Forse rimproverò gli uomini di essere stati cattivi, forse, rivolse a Gesù tenere
parole di consolazione. Poi tentò di portargli aiuto e, col becco tolse alcune di quelle spine che lo torturavano. Le piume dell'uccellino caritatevole si macchiarono di rosso.
L'uccellino conservò, come prova di amore, quelle gocce di sangue sul suo cuoricino. Gli uomini vedendolo lo chiamarono «pettirosso». Ancora oggi tutti gli uccellini che appartengono alla famiglia dei pettirossi hanno sul petto qualche piumetta sanguigna.

La leggenda del melograno
Gesù saliva faticosamente la via del Calvario. Dalla Sua fronte trafitta di spine cadevano gocce di sangue. Gli Apostoli, timorosi, seguivano Gesù da lontano, per non farsi vedere; ed uno di essi, quando il triste corteo era passato, raccoglieva i sassolini arrossati, dal sangue benedetto di Gesù e li metteva in un sacchetto. A sera gli Apostoli si radunarono tutti tristi nel Cenacolo; l'apostolo pietoso trasse di tasca il sacchetto per mostrare ai compagni le reliquie del sangue di Gesù; ma nel sacchetto trovò un frutto nuovo, dalla buccia spessa ed aspra dentro alla quale erano tanti chicchi, rossi come il sangue di Gesù. Era nato il melograno.


*****
Non camminare davanti a me
potrei non seguirti;
non camminare dietro di me,
potrei non sapere dove andare.
Cammina a fianco a me
e sii per me un amico!
(Albert Camus)

Buona Pasqua a tutti i volontari del mondo ! Buona Pasqua a tutti !