UN UOMO E UNA DONNA
Le due famiglie di coloni mezzadri lavoravano due poderi confinanti. Quella dei Poletti, di trentun persone, abitava alla Matiossa vecchia, e quella dei Venturini, rimasti in dopo la morte del padre, stava alla Matiossa nuova. I due fondi, di proprietà dell’Amministrazione degli Ospedali d’Imola, erano situati fra il fiume Sillaro ed il canale Ladello nella Bassa Imolese, più vicini a Balìa che a Sesto. La terra era divisa in grandi rettangoli delimitati nel verso lungo dai filari delle viti e nel verso corto dalle cavedagne. Vi si coltivavano cereali, barbabietole, foraggi. Attorno alle case c’erano alberi da frutta e vicino al pozzo l’orto protetto da un fitto steccato per ostacolare l’accesso delle galline che razzolavano sull’aia. Nelle stalle ruminavano le mucche, nei porcili grugnivano i maiali sempre in attesa di cibo, mentre nel fienile, al pianoterra, si rincorrevano nelle gabbie i mansueti conigli.
Livia era della famiglia Venturini e Livio della famiglia Poletti. Nel millenovecentotrenta, quando i due si fidanzarono, lui aveva ventidue anini e lei diciassette. Il fidanzamento legittimava agli occhi della gente un amore nato e cresciuto negli incontri prima casuali poi cercati durante il lavoro nei campi.
Questo non fu però il solo evento importante di quell’annata. Il 1930 fu infatti per Livia e per Livio un anno davvero cruciale. Il giovane, che militava nell’organizzazione comunista clandestina, costituita e diretta da un gruppo di compagni più anziani tra i quali c’era Amilcare il fratello maggiore di Livia, non amava molto parlare, preferiva ascoltare ed agire. Egli era stato uno dei più attivi a mettere le bandiere rosse sugli alberi nella notte precedente il Primo Maggio.
La ragazza condivideva le sue idee. II padre era stato socialista, i fratelli maggiori Amilcare e Gino erano comunisti. Quando, in settembre, i carabinieri, dopo aver rovistato nelle case di Nicola Andalà e di Giulio Gardelli erano andati a fare la perquisizione dai Venturini, ella fu sveltissima a nascondere nel fienile il pacchetto di stampa antifascista depositato provvisoriamente da Amilcare in cantina.
Subito dopo Livia aveva aderito alla cellula femminile. Sempre quell’anno, proprio al suo scadere, nella vita di Livia e di Livio si verificò il primo forzato lungo distacco.
Nella notte precedente il sette novembre i comunisti di Sesto ed Osteriola vollero celebrare la grande rivoluzione socialista di Russia. Quelli di Sesto collocarono una bandiera rossa sul balcone della Casa del Fascio del paese mentre quelli di Osteriola la fissarono su un albero accanto al ponte di Massalombarda all’incrocio tra la San Vitale e la Selice. Livio prese pane all’azione. In dicembre si scatenò l’ondata degli arresti: 52 compagni vennero portati a Bologna nel carcere di San Giovanni in Monte. Dalle case dei Poletti portarono via Livio coi fratelli Enrico e Guerrino ed il cugino Angelo, dalla casa Venturini presero Amilcare e Gino.
Durante la fase istruttoria “gli imputati di costituzione del PC d’Italia, di appartenenza allo stesso e propaganda” vennero custoditi nel penitenziario di Castelfranco Emilia. Le donne di Sesto ed Osteriola si facevano in bicicletta oltre cento chilometri di strada tra l’andata e il ritorno per il colloquio di un’ora consentito dal regolamento. Anche Livia compì alcune volte quel tragitto per vedere Livio. Poi il trasferimento al carcere di Regina Coeli a Roma per il processo del Tribunale Speciale e quindi, a sei mesi dall’arresto, le condanne. Mentre Gino Venturini e Angelo Poletti se la levarono in istruttoria con due anni di “ammonizione”, Guerrino ed Enrico Poletti ed Amilcare Venturini furono condannati a cinque anni di confino da scontare in paesini della Calabria, il primo a Longobuco, il secondo a Celico, il terzo a Oriolo. A Livio fu inflitta una delle pene più dure: tre anni e tre mesi di reclusione da scontare nel carcere di Saluzzo di Cuneo. Per fortuna le pene furono ridotte dall’amnistia concessa nell’Ottobre 1932 per il Decennale della Marcia fascista su Roma. Tutti i confinati e i carcerati di Sesto e Osteriola tornarono alle loro case, naturalmente in stato di vigilanza speciale. Anche i Poletti e i Venturini vennero rilasciati. Ma essi non poterono più rientrare nei poderi di Matiossa vecchia e di Matiossa nuova tra il Sillaro e il Ladello. Subito dopo gli arresti, l’Amministrazione degli Ospedali di Imola aveva inviato lo sfratto alle due famiglie dichiarando… “di non tollerare famiglie coloniche nel cui ambito abbian potuto prosperare cospiratori e nemici del supremo ordine nazionale”.
Nel novembre 1931, il giorno di San Martino, i Poletti si erano trasferiti a Castel Bolognese in un Podere a mezzadria del Conte Ginnasi, mentre i Venturini si erano trasformati in braccianti agricoli traslocando in una casa di via Buttaceci nel Comune di Mordano. Fu appunto a Mordano che nell’aprile 1933 Livio e Livia celebrarono il loro matrimonio, fu qui che ebbero la boro prima abitazione e fu qui che nacque la figlia Vanda. Dapprima Livio trovò un’occupazione nei lavori di sterro della ferrovia Imola-Massalombarda, poi riuscì a farsi assumere nel Gruppo Facchini Imolesi. Era un giovane sano, robusto, energico. Il lavoro gli piaceva, i compagni erano simpatici, la paga era migliore. Lasciarono Mordano per andare ad abitare a Sasso Morelli dove si era trasferito il fratello Amilcare dopo che il podestà, il segretario del Fascio e il Maresciallo dei Carabinieri l’avevano convocato in Comune per dirgli: “Senta Venturini, qui a Mordano di gente come Lei c’è solo Lei. Perciò se Lei se ne va, ci fa un piacere”.
Nel 1936 Amilcare fu arrestato per la seconda volta e condannato a cinque anni di confino all’isola di Ventotene con la seguente motivazione: “Irriducibile comunista, s’abbandonò nei locali del Dopolavoro d’Imola a una sfacciata allegria quando seppe della vittoria del Fronte Popolare in Francia”. Livio e Livia andarono a vivere assieme alla moglie di Amilcare e vi restarono fino a quando questa se n’andò coi figli a Varese presso una sorella. Livio e Livia e la figlia Vanda lasciarono allora Sasso Morelli andando a vivere ad Imola, in via Emilia 284, proprio in quella casa dove c ‘è la piccola lapide con l’iscrizione:
LIVIO POLETTI LIVIA VENTURINI
1908-1944 1913-1944
CADUTI PER LA LIBERTA'
A Imola Livio continuò il suo lavoro di facchino mentre Livia si occupò come domestica ad ore presso una vecchia signora. Il filo della loro vita si dipanò per qualche anno senza strappi particolari. Ogni tanto si recavano con la bambina a Castelbolognese a fare visita ai parenti di lui o a Bubano dove al Pontecosta stavano ora i parenti di lei.
Nel 1940 ci fu l’entrata dell’Italia in guerra. Tutto cambiò nella vita delle famiglie italiane, comprese quelle dei Venturini e dei Poletti. Alcuni fratelli di Livio e di Livia dovettero partire per il fronte, i prodotti alimentari cominciarono a scarseggiare. Vanda frequentava la scuola ed era in piena crescita. E si sa che quando i bimbi crescono occorre nutrirli come si deve. Anche Livio, con quel suo lavoro, aveva bisogno di una adeguata alimentazione.
Poi venne il 25 luglio 1943… Finalmente! Livio e Livia parteciparono all’esplosione di gioia della popolazione imolese. Con loro c’era anche Amilcare, rientrato a Imola da Varese dove aveva raggiunto la famiglia allo scadere della pena. Quindi seguì l’8 settembre con l’occupazione tedesca e la rinascita del fascismo in veste repubblichina. Livio e Livia entrarono nella Resistenza. Livio militò nei primi gruppi armati: fu lui a giustiziare la sera del 6 novembre 1943 in via Luigi Sassi il Console della Milizia fascista imolese Barani. La sera stessa Livio venne arrestato con altri sei compagni sospettati d’aver compiuto 1’attentato. Stava cenando quando i fascisti repubblichini si presentarono. In una tasca della giacca aveva la pistola.
“Venga con noi”. – dissero i fascisti.
“Un momento, mi cambio d’abito e vi seguo”. – disse Livio.
Livia capi al volo. Prese la giacca del marito, salì nella stanza di sopra, buttò la pistola dalla finestra giù nel cortile e scese porgendo al marito una giacca diversa. Livio fu trattenuto in carcere a Bologna e fu sottoposto a numerosi interrogatori nei quali egli negò sempre ogni cosa, finché dopo quaranta giorni venne rilasciato. In marzo i fascisti tornarono a cercarlo. Stavolta l’accusa era ben precisa e Livio, avvertito in tempo, non si fece trovare nascondendosi presso una famiglia di contadini sulle colline di Castelbolognese. Qui apprese la notizia del ferimento di Livia nella manifestazione delle donne nella Piazza del Municipio a Imola.
La mattina del 29 aprile 1944 Livia era scesa appositamente in città da Riviera, una borgatina tra Casalfiumanese e Borgo dov’era andata a rassettare la casa in cui era sfollata la vecchia signora.
Le compagne dirigenti dei Gruppi di Difesa della donna l’avevano avvertita in tempo e lei non voleva assolutamente mancare. La manifestazione era stata indetta per protestare contro le autorità fasciste che non fornivano regolarmente la prescritta razione di grassi alimentari. Livia arrivò in piazza e fece gruppo con le donne giunte da Sesto Imolese tra le quali aveva parecchie amiche. Assieme a loro gridò le rivendicazioni e attese il ritorno della delegazione recatasi a parlamentare con il Commissario prefettizio Bivona. Quando la delegazione ritornò dicendo che Bivona era assente, anche Livia urlò più forte contro i brigatisti neri.
Poi la tragedia: l’arrivo sulla piazza dei pompieri, le donne che strappano dalle loro mani il tubo dell’acqua e ne rivolgono il getto contro i militi fascisti, la violenta zuffa con loro, il sopraggiungere degli altri fascisti… che sparano sulla folla. Livia avvertì un colpo tremendo alla schiena e non poté più reggersi in piedi. Si afflosciò sull’acciottolato. Accanto a sé scorse distesa per terra, gemente, la Rosa Zanotti di Pontesanto, una vedova madre di sei figli. Quando le compagne di Osteriola la sollevarono, Livia sentì un caldo fiotto di sangue inondarle il dorso. Si lasciò condurre sotto il porticato dove fu fatta sedere appoggiata ad una colonna. Da quel posto ella vide il corpo di Rosa disteso su un carretto che si allontanava mentre una voce diceva: “Non c’è più nulla da fare!”. Ella raccolse tutte le forze per inveire contro gli assassini e incitare le compagne: “Fascisti maledetti, basta con la guerra! Ridateci i nostri uomini! Pane, non cannoni!”. Vide arrivare i gendarmi hitleriani con i grandi elmi, le placche ovali sul petto, i grossi gambali, i fucili minacciosi. Li vide circondare la piazza. Avvertì anche quando la caricarono sull’autoambulanza, poi tutto s’annebbiò, e non vide e non sentì più nulla.
Cominciò per Livia la dolorosa via crucis che si sarebbe conclusa quarantacinque giorni dopo a Bubano. Dapprima all’ospedale d’Imola, poi all’ospedale di Bologna, poi nella casa della sorella Linda a Bubano. Una domenica mattina, in compagnia del fratello Amilcare e del dottor Agostino Mongardi di Sasso Morelli, arrivò il professor Francesco Delitala, primario dell’Ospedale Rizzoli, condotto qui in auto dalla Fantuzza dov’era sfollato. Egli visitò scrupolosamente Livia, la rincuorò, quindi fuori di casa spiegò: “Ha la spina dorsale interamente spezzata, è come un corpo tagliato in due, in un caso simile io sono impotente…”. Durante la sua lunga agonia Livia intravide qualche volta accanto al suo letto il viso di Livio che sopraggiungeva di nascosto sfidando l’arresto, e di Vanda che era ospite della nonna a Bubano. Quando le sue condizioni peggiorarono Livia venne nuovamente ricoverata all’Ospedale di Imola, e quando il primario professor Sandrini annunciò che era sopraggiunta la fine, fu riportata a Bubano dove spirò il 13 giugno alle tre del pomeriggio. Aveva trentun anni.
Il funerale, in forma civile, si tenne a Bubano il giorno quindici. C’era una grande folla di donne e di uomini, e c’erano tanti fiori, bianchi e rossi. Accanto alla bara camminavano il fratello Amilcare, le sorelle Linda e Rina, le dirigenti comuniste Nella Baroncini, Adelfa Rondelli, Prima Vespignani, Mafalda Contavalli Andalò, Stellina Tozzi, e tante compagne e compagni di Sesto, Osteriola, Mordano, Bubano. Nascosto tra la gente c’era pure Livio. Il corteo funebre si mosse dalla casa di Via Lume 49 e raggiunse centro della borgata, svoltò per via Chiesa e prese la stradina del cimitero. I fascisti non si fecero vedere. I carabinieri rimasero chiusi in caserma. La bara con la salma di Livia fu deposta in un loculo del Cimitero di Bubano dove rimase fino al 21 ottobre 1945, quando fu riesumata e trasferita a Imola sulla Piazza del Municipio. E lì, allineata con quelle dei caduti della Trentaseiesima Brigata Garibaldi, la bara di Livia si trovò accanto a quella su cui era inciso il nome di suo marito Livio.
La richiesta di raggiungere i partigiani sulle montagne fu avanzata da Livio subito dopo la morte della moglie. I dirigenti della Resistenza imolese lo accontentarono. Un pomeriggio, alla fine di giugno, salutato dai cognati Amilcare e Linda, dalla sorella Velia e dalla figlia Vanda, egli lasciò la casa-rifugio sulle colline sopra Castelbolognese. Gli fu detto di essere prudente, di non preoccuparsi per la figlia perché di lei avrebbero avuto cura sia i Poletti che i Venturini, e fu abbracciato. S’incamminò per il sentiero che portava in direzione del tramonto del sole, verso Codrignano, dov’era fissato l’incontro con la guida che avrebbe accompagnato lui e gli altri compagni sulle montagne controllate dalla Trentaseiesima Brigata Garibaldi. Raggiunta la formazione, Livio venne aggregato alla Compagnia Comando con mansioni di magazziniere. Vedeva spesso il comandante Bob, il capo di Stato Maggiore Bruno, il vecchio Roberto, il Moro, Corrado. Strinse amicizia con Topi, che già conosceva. Nei mesi di Luglio, Agosto, Settembre, visse tutte le vicende della Brigata, ed ebbe naturalmente molto da fare negli spostamenti dal Bastia al Carzolano, da Monte Fabbro a Cortecchio e a Sommorio, e nel trasferimento verso la zona tra la Strada Casolana e la Faentina,
Proprio qui, sulle colline tra le valli del Senio e del Lamone, Livio visse l’undici ottobre la sua ultima giornata. Il Comando era attestato a Ca’ di Gostino nei pressi della Chiesa di Santa Maria di Purocielo. Più in alto, non molto lontano, c’erano già le truppe alleate, e il Comando aveva deciso di sfondare le linee tedesche per raggiungere l’Italia liberata. Ma il nemico si era mosso per tempo a contrastare il progetto dei partigiani. …Una colonna di quattrocento tedeschi, saliti nottetempo da Brisighella e Fognano, attaccò alle sei del mattino il Comando di Brigata. Una raffica uccise Attila. Topi, che era di guardia, corse a svegliare quelli che dormivano. Svegliò anche l’amico Livio che aveva la febbre alta, e gli caricò lo zaino sulle spalle pregandolo di mettersi in salvo.
A Ca’ di Gostino non c’erano più di trenta uomini, e la loro resistenza durò una mezz’ora. Il colonnello Saba, immobile davanti alla porta, vuotò tutti i caricatori del suo sten prima di morire. Poco discosto cadde l’ex brigadiere dei carabinieri di Casola Valsenio. Quando i caduti furono di numero pari ai vivi, Bob, con alte grida, chiamò i superstiti accanto alla casa e ordinò la ritirata verso la Casa del Piano di Sopra dove si trovava la compagnia di Tito. Il ripiegamento fu difficile. Gino ci riuscì a sbalzi, assieme a Uragano e a Silvio Melloni che comandava il plotone comando. Anche Bob, Bruno e Corrado ce la fecero. Nerio s’appiattò per un attimo a fianco di Ivo in un avallamento, poi corse una ventina di metri e si buttò a terra. Voltandosi vide quando Ivo, ferito gravemente, si sparò con la pistola alla tempia per non cadere vivo nelle mani del nemico. Topi corse verso il monte dietro il fienile. Passando nei pressi del pagliaio scorse, distesi l’uno accanto all’altro, in una pozza di sangue, Roberto il vicecommissario, e Livio il magazziniere, già entrambi nel sonno della morte…
A liberazione avvenuta, il 21 ottobre 1945, le bare con le salme di Livia e Livio vennero trasportate assieme alle altre dalla Piazza del Municipio di Imola fino al cimitero del Piratello e collocate nel Sacrario dei Caduti della Resistenza una accanto all’altra. La pace era stata conquistata. Il fascismo era stato sconfitto. Una nuova pagina di storia iniziava per il mondo e per l’Italia. E si sa che la storia, fatta dagli uomini, per gli uomini, coinvolge i destini personali dei singoli uomini.
Il racconto è nato costruito utilizzando una
testimonianza orale di Amilcare Venturini,
il saggio di Sergio Soglia “Le donne imolesi insorgono”,
un brano del libro di M. e N. Galassi
“Resistenza e 36.ma Garibaldi”.
Le circostanze vollero che io, allora bambina, non vedessi morire mio padre e mia madre. Lo seppi a voce, per entrambi, dai parenti. Fui sempre vicino a mia madre nei quarantacinque giorni successivi al suo ferimento mortale. In quei tristissimi giorni di agonia, mio padre veniva spesso a trovarci, sempre di notte per sfuggire all’agguato del brigatisti neri di sorveglianza nei dintorni. Io lo sapevo, e senza dire niente a nessuno, stavo spesso anche più di un’ora ad aspettarlo dopo il tramonto, seduta sul ponte dove la strada proveniente da Mordano incontra quella di Bubano. Erano le uniche volte in cui ormai potevo vederlo: i fascisti lo cercavano e dove si nascondesse non lo sapevo. Era giugno. E il tredici di quel mese la mamma morì.
Dalla testimonianza di Vanda – in “L. Morini: Per essere libere…”
“… Il tredici Livia morì. Mezanòt mi incaricò di andare a Imola a ordinare i garofani rossi, ma per ordine dei fascisti i fiorai non potevano tenere in quei giorni i garofani rossi. Lo riferii a Mezanot che mi fece tornare a Imola ad ordinare fiori bianchi. E con quelli facemmo il funerale…”.
Dalla testimonianza di “Maria” – in “L. Morini: Per essere libere…”
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Livio Poletti a Mulino Boldrino (foto tratta da : "La battaglia di Purocielo", di Ferruccio Montevecchi)
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