Scappare. Fuggire via da qui. Sarebbe troppo, troppo facile.
Facile com’è facile far soldi rubando. Andarsene significa aver già mollato dal principio, non aver mai cominciato a lottare veramente per ciò in cui si crede. Molti in Mozambico la pensano così, ma io ci credo, perché questa è la mia terra. I miei genitori mi hanno allevato con un forte sentimento verso la nostra patria, mi hanno insegnato il portoghese,la lingua ufficiale; ho imparato anche il nostro dialetto e quando diconostro, intendo quello della tribù dei Chingana.
Infatti, in Mozambico esistono 16 gruppi etnici con una propria lingua; la maggior parte della gente qui come in tutta l’Africa si sente parte del proprio gruppo etnico, che presenta tradizioni secolari. Scarseggia quel senso nazionale che dice “siamo tutti africani” o “siamo tutti fratelli” e questo è un valore importante di cui è privo il Mozambico.
Vorrei trasmettere a tutti la bellezza di questa immensa e generosa terra, che ci dona tutto quello di cui abbiamo bisogno, mentre molti cercano di arricchirsi spostandosi dove hanno maggior possibilità di riuscita, come in Sudafrica. Il mio paese è molto povero, è stato distrutto da una guerra civile e continua ad essere devastato dai cicloni e dalle periodiche inondazioni; ci sono tanti problemi: sociali, economici, sanitari, politici, di giustizia… ma bisogna anche considerare che è uno stato che ha poco più di 30 anni ed è ripartito da zero, dopo esser dipeso per anni dai portoghesi che, pur sfruttando le nostre terre, avevano prodotto un certo sviluppo.
Con questo non voglio giustificare il Mozambico e i suoi abitanti, ma vorrei far capire alla nostra gente quanto sia importante non andarsene, perché solo rimanendo, lavorando e producendo si può crescere. A mio parere, per avviare questo processo, bisogna partire dall’istruzione, paragonabile alle fondamenta di una casa poiché senza di esse non si può realizzare il resto.
L’istruzione, se garantita a tutti, sovrasta l’ignoranza e porta libertà, educa i giovani e permette loro di trovare un lavoro, può perfino combattere l’aids perché la conoscenza è vitale per poter capire che cosa c’è da migliorare, che cosa è corretto e cosa no. La mia non è presunzione o la speranza di un ingenuo ragazzino che non sa niente della vita.
Se potessi cambiare il mio paese, incrementerei in primis l’istruzione e poi realizzerei le strutture pubbliche, il sistema sanitario e tutto ciò che è necessario per il popolo. Spesso penso a queste cose e sogno di fare il politico, ma purtroppo non ho la minima possibilità di avvicinarmi a quel mondo. Solo chi studia e chi ha soldi può ambire a raggiungere questo traguardo e a me mancano entrambe le cose.
Non ho avuto l’opportunità di frequentare la scuola, lavoro da quando avevo 12 anni per aiutare la mia famiglia, dopo che i miei genitori sono morti nel ciclone che ha investito il sud del Mozambico nel 2000. Essendo il primogenito tutte le responsabilità sono cadute su di me e quindi su mio fratello minore. Il lavoro nei campi non era sufficiente a sfamare i miei 5 fratelli e mio nonno settantenne, abbattuto dalle fatiche di una vita. Avere quell’età in Mozambico è quasi un miracolo, egli è il saggio del paese rispettato da tutti, ma non poteva provvedere alla nostra sussistenza. Così ho dovuto inventarmi un secondo lavoro.
Trovavo un passaggio per raggiungere la nostra capitale o prendevo il “chaspa”, il tipico pulmino di Maputo e l’unico mezzo a disposizione se non possiedi una macchina. Mi collocavo lungo la via affollata del mercato e aspettavo i clienti. Che cosa facevo? Il “sapateiro”, ovvero il ciabattino, facendo uso dei vecchi e arrugginiti strumenti del nonno. E’ un lavoro umile, che rende dai 2000 ai 3000 metacais per servizio, che si tratti di una lucidata o di una rammendata alle scarpe.
Per rendere l’idea un riso di bassa qualità costa sui 7000 mt, perciò con quello che guadagnavo compravo le cose indispensabili alla vita che non potevo ricavare dalla terra: sale, sapone, zucchero…
All’inizio era stata dura, ma con il tempo tutto era rientrato nella normalità e riuscivamo a cavarcela discretamente. Lavorare nel campo era molto faticoso e stressante, andare in città era quasi un divertimento a confronto. Ecco, è qui che mi sono innamorato per la prima volta del mio paese.
Non fraintendete, io ho sempre amato il luogo in cui vivevo, ma fino ad allora la mia percezione del mondo era stata infatti molto limitata, vivendo in una periferia fatta di sterminati campi di terra interrotti da qualche cumulo di casupole di mattoni, di lamiera o di paglia. Vivevamo in una piccola casa col pavimento di terra battuta contenente le cose essenziali e anche la televisione, non eravamo proprio fuori dal mondo, ma il tempo nelle zone rurali sembra quasi rallentare; c’è una serenità che la città non può dare, sicuramente, ma io mi sentivo impotente di fronte a questa immensa e potente natura che provocava spesso immani catastrofi. Avvertivo che mi mancava qualcosa, mi sentivo quasi soffocare in certe occasioni, come se il mio subconscio si rendesse conto che il luogo in cui vivevo non fosse adatto a me.
Non fraintendete, io ho sempre amato il luogo in cui vivevo, ma fino ad allora la mia percezione del mondo era stata infatti molto limitata, vivendo in una periferia fatta di sterminati campi di terra interrotti da qualche cumulo di casupole di mattoni, di lamiera o di paglia. Vivevamo in una piccola casa col pavimento di terra battuta contenente le cose essenziali e anche la televisione, non eravamo proprio fuori dal mondo, ma il tempo nelle zone rurali sembra quasi rallentare; c’è una serenità che la città non può dare, sicuramente, ma io mi sentivo impotente di fronte a questa immensa e potente natura che provocava spesso immani catastrofi. Avvertivo che mi mancava qualcosa, mi sentivo quasi soffocare in certe occasioni, come se il mio subconscio si rendesse conto che il luogo in cui vivevo non fosse adatto a me.
Il mio luogo era Maputo, una capitale reale e viva, di un milione e 200 mila abitanti (se non di più). Qui si respira un’aria diversa, c’è sempre attività e fermento, c’è rumore e confusione, c’è gente che parla, ride, urla e che cerca di vendere i propri prodotti al mercato, che è un vero e proprio viluppo dibancarelle con i colori della frutta che si combinano a quellidelle variopinte “kapulanas” (stoffe tradizionali dai vari usi) delle donne. Queste ultime girano per la città con bacinelle in testa colme di arance o altra frutta, la gente cammina lungo strade asfaltate in epoca coloniale, o strade polverose e piene di solchi, dove l’asfalto è solo un vago ricordo. Caratteristico di queste vie è il fatto che puoi capire subito dove ti trovi, a seconda degli odori: di cibo, di polvere, di immondizia, di pesce…A volte possono essere davvero fastidiosi sommati al caldo torrido, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.
Maputo è unica e io mi sento parte di essa, ma so che non è tutto oro quel che luccica. Questa città è anche contraddizione, una fusione di povertà e ricchezza, testimoniata dalle villette a schiera per i ricchi circondate dal filo spinato elettrificato, come delle riserve per gli elefanti. Poi magari giri l’angolo e ti ritrovi davanti la vera Africa: quella fatta di edifici fatiscenti, di carreggiate dissestate, di mendicanti, di una marea di bambini che giocano con un pallone e che per quel poco che hanno, sono felici.
Questa è Maputo ed è anche un po’ tutta l’Africa: i veri valori non sono quelli che pullulano in Occidente come la ricchezza e il potere, ma quelli che tengono uniti una famiglia come l’amore, la condivisione di un pasto frugale riuniti intorno al fuoco, i canti e le danze…questa è la vera felicità e ogni volta che torno a casa la sera, me ne convinco sempre di più.
Guenda Dal Cin - Italia
RACCONTO TRATTO DAL LIBRO : VI RACCONTO L'AFRICA (Quattordici racconti scritti da studenti italiani, kenyoti e congolesi).
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