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23 febbraio 2015

UN DOMANI PER I MIEI BAMBINI


“La vita è come un lungo viaggio in macchina, soggetto a imprevisti. Un giorno la macchina su cui viaggiavo si è rotta all’improvviso. Nel buio della notte. In una strada deserta. Davanti a una linea rossa. Ma proprio quando avevo cominciato a rassegnarmi, qualcuno è venuto in mio soccorso. Si è sporcato le mani e mi ha permesso di riprendere il viaggio. La linea rossa non era più il termine, ma un punto di partenza. Da quel momento non sarei più stata sola”.
Per pochi anni, fino all'adolescenza, la vita di Pacem è stata serena. Nata in una famiglia relativamente agiata, ha potuto studiare nelle migliori scuole del Malawi, il suo paese. Ma tutto cambia quando prima la madre e poi il padre vengono portati via dall'Aids, una malattia che per ignoranza, pregiudizio e tabù, in quelle parti dell'Africa vale ancora come un marchio di infamia e come una condanna a morte. Da quel momento nella sua vita tutto prende una brutta piega. Si sposa con l'uomo che ama ostinatamente, ma che si rivelerà violento e infedele, oltre che assolutamente incosciente. Quando la seconda figlia, Melinda, ancora neonata, presenta sintomi preoccupanti, Pacem vede aleggiare lo spettro della sventura. Di nuovo, la sua vita e quella dei suoi figli è appesa alle due lineette rosse del test. Ma questa volta Pacem è decisa a lottare per se stessa e per i suoi bambini. Una lotta che la porterà a ritrovare speranza e vita per se e per la sua famiglia e ad essere di sostegno per tante donne in Africa, cambiando un destino di morte che sembrava ineluttabile.

Ecco un estratto del suo libro, 
quello che più mi ha commosso : 

IFA

"Esatto. Si chiama così".
Non potevo credere a quello che avevo appena sentito. Amina, un'infermiera del NRU, il centro nutrizionale di Nambuma, che conoscevo piuttosto bene, mi aveva appena detto che il piccolo bambino che teneva tra le braccia si chiamava Ifa, "morte". 
"Non è possibile!"
"E' così, credimi"
Non potevo credere che una madre avesse potuto dare quel nome a un bambino, a una vita che si era appena affacciata al mondo. E' vero, in Malawi è normale, i bambini hanno spesso nomi insoliti e originali, si chiamano Fango, Pettegolezzo, Complotto, ma Morte no, non lo avevo mai sentito.
Decidemmo di incontrare la madre. Era una donna dura, segnata da una vita che giudicava cattiva. In quel periodo passava le giornate nei campi, a preparare il terreno per la semina. Non aveva il tempo né la possibilità di curare suo figlio. Si svegliava presto, tornava tardi. Esausta. Quando usciva, lo abbandonava nella capanna. Solo. Senza cibo. Era inevitabile che il bambino stesse male e che fosse costretta a ricoverarlo di frequente presso il centro nutrizionale. Lo lasciava li, tornava a lavorare. Non aveva altra scelta. La prima volta fu scontrosa. Si vedeva che non vedeva l'ora che ce ne andassimo. Tornammo più di una volta. A mano a mano ci trovammo. Fu naturale chiederle perché avesse scelto quel nome. 
"Durante la gravidanza sono stata molto male, ho subito tanti ricoveri, mio marito se ne è andato, mi ha lasciata sola. Quando mio figlio è nato era sempre malato" disse guardandolo. "Che bambino può venir fuori da tutto questo? che vita può avere?".
Le spiegammo che con tutta probabilità il bambino era sieropositivo, che, però, poteva essere curato, poteva essere salvato. Le raccontammo le nostre storie, le parlammo dei nostri figli, le descrivemmo la terapia e i suoi successi: "Cambiagli il nome" suggerimmo. "Dagli speranza, non condannarlo a morire."
Una settimana dopo si presentò al centro e chiese a Grace, un'attivista, di aiutarla a scegliere il nuovo nome. Le guardai, le osservai: ridevano, emanavano una luce chiara. Alla fine, scelsero. Da quel giorno, Ifa, Morte, diventò Moses, colui che nella Bibbia è stato salvato da morte sicura, salvato dalle acque. Ora quel bambino sta bene e quando viene al centro corre sempre a cercare Grace e l'abbraccia forte. Sembra quasi aver capito che è stata lei a ridonargli la vita e a trasformare il destino ineluttabile che era scritto nel suo primo nome.

Pacem Kawonga. Nata in Malawi, è oggi attivista di Dream, progetto anti-Aids promosso dalla Comunità di Sant'Egidio, e coordinatrice di uno dei centri della comunità in Malawi. Grazie alle cure ricevute, ha una vita serena con i suoi due figli e sostiene centinaia di donne. “Un domani per i miei bambini” racconta la sua storia.

16 febbraio 2015

IN CAMMINO VERSO L'ESPERIENZA..............

"L'Africa ti ricorda il vero valore della Vita, senza la frenesia di inseguire il superfluo"

La testimonianza di Marielena Paredes di ritorno dalla sua esperienza di volontariato in Uganda.

La volontaria Marilena Paredes si è recata per noi quest'estate a visitare il progetto di adozione a distanza di gruppo che Mission Bambini sostiene da diversi anni a Kitanga, in Uganda. Ecco la sua testimonianza: "Non è l’orologio che scandisce il tempo durante il tragitto dall’aeroporto a quella che sarebbe stata la mia casa per tre settimane. Ma la curiosità di entrare nel mistero di un mondo sconosciuto.
Tre settimane dopo lo stesso tragitto sembra durare troppo poco... e l’unica cosa a cui riesco a pensare è che devo assolutamente imprimere quegli stessi posti, angoli bui, strade malmesse e strani odori nella mia memoria il più possibile, perché sicuramente ne sentirò la mancanza.
E infatti, una settimana dopo il mio rientro, mi ritrovo a pensare ogni giorno a Kitanga e ai suoi bambini. Durante le tre settimane trascorse a Kitanga, io e la mia compagna di percorso siamo state molto a contatto coi bambini. Al mattino ci recavamo nelle aule e seguivamo le lezioni. Qualche volta gli insegnanti richiedevano che insegnassimo Italiano. I bambini sono affascinati dalla lingua italiana. Conoscono già qualche vocabolo. Mentre insegni sono molto attenti e partecipi, anche se qualcuno non manca di un pizzico di timidezza. Era molto bello vedere come loro si distraevano guardandoti, voltandosi verso di te sorridendo. Hanno un bellissimo sorriso. Nonostante la situazione in cui si trovano, sono sempre molto allegri, gioiosi, pieni di vita.

Spesso organizzavamo delle attività di disegno che prima concordavamo con l’insegnante. I bambini amano disegnare e devo ammettere che quelli ugandesi sono molto bravi nel farlo. Il senso della precisione è insito nei loro disegni: case, mucche, capre, fiori e parenti, seguono un senso logico e ordinato. Hanno apprezzato usare le tempere e i pennelli e si sono divertiti a ritagliare carta velina da incollare ai loro disegni sui cartoncini. Per loro qualsiasi attività eseguita in classe insieme a noi era momento di felicità.
Che bello ed emozionante sentire le loro canzoncine dedicate a noi ogni volta che entravamo in classe, oppure quando venivamo chiamate dalle bambine che desideravano cantare per noi! Si sono divertiti molto anche a saltare le corde che abbiamo portato con noi.
Quello che mi ha colpito di più è stata la gioia e la semplicità di questi piccoli ugandesi che si emozionano per il solo fatto di avere tra le loro mani un temperino colorato che probabilmente non hanno mai usato, vederli saltare e correre per raggiungere le bolle di sapone che facevano librare nell’aria. Ballare con loro, guardare un cartone animato insieme e sentirli ridere a squarciagola, pensare che sono lontani dai loro familiari e nonostante ciò vederli essere sereni, passare le giornate insieme, sentirli pronunciare i nostri nomi ogni volta che ci vedevano e salutarci con i loro meravigliosi sorrisi, sentirli cantare già fin dalle 6 del mattino: ecco!!! Tutto questo mi mancherà.

Viviamo in un mondo troppo legato a stereotipi di felicità materiali, scordandoci il vero valore della vita. L’Africa te lo ricorda, te lo fa vivere, nulla è invece scontato. L’Africa ti fa vivere la vita senza la frenesia di inseguire il superfluo. L’Africa ti lascia un ricordo indelebile dell’essenza della vita stessa.
È indimenticabile l’abnegazione del personale di cucina, con il quale abbiamo trascorso un giorno di esperienza, personale che sa vincere con l’entusiasmo della speranza la grande difficoltà di preparare l’alimentazione sfidando la problematica quotidiana delle ristrette risorse."


01 febbraio 2015

MOZAMBICO


Scappare. Fuggire via da qui. Sarebbe troppo, troppo facile.
Facile com’è facile far soldi rubando. Andarsene significa aver già mollato dal principio, non aver mai cominciato a lottare veramente per ciò in cui si crede. Molti in Mozambico la pensano così, ma io ci credo, perché questa è la mia terra. I miei genitori mi hanno allevato con un forte sentimento verso la nostra patria, mi hanno insegnato il portoghese,la lingua ufficiale; ho imparato anche il nostro dialetto e quando diconostro, intendo quello della tribù dei Chingana.
Infatti, in Mozambico esistono 16 gruppi etnici con una propria lingua; la maggior parte della gente qui come in tutta l’Africa si sente parte del proprio gruppo etnico, che presenta tradizioni secolari. Scarseggia quel senso nazionale che dice “siamo tutti africani” o “siamo tutti fratelli” e questo è un valore importante di cui è privo il Mozambico.
Vorrei trasmettere a tutti la bellezza di questa immensa e generosa terra, che ci dona tutto quello di cui abbiamo bisogno, mentre molti cercano di arricchirsi spostandosi dove hanno maggior possibilità di riuscita, come in Sudafrica. Il mio paese è molto povero, è stato distrutto da una guerra civile e continua ad essere devastato dai cicloni e dalle periodiche inondazioni; ci sono tanti problemi: sociali, economici, sanitari, politici, di giustizia… ma bisogna anche considerare che è uno stato che ha poco più di 30 anni ed è ripartito da zero, dopo  esser dipeso per anni dai portoghesi che, pur sfruttando le nostre terre, avevano prodotto un certo sviluppo.




Con questo non voglio giustificare il Mozambico e i suoi abitanti, ma vorrei far capire alla nostra gente quanto sia importante non andarsene, perché solo rimanendo, lavorando e producendo si può crescere. A mio parere, per avviare questo processo, bisogna partire dall’istruzione, paragonabile alle fondamenta di una casa poiché senza di esse non si può realizzare il resto. 

L’istruzione, se garantita a tutti, sovrasta l’ignoranza e porta libertà, educa i giovani e permette loro di trovare un lavoro, può perfino combattere l’aids perché la conoscenza è vitale per poter capire che cosa c’è da migliorare, che cosa è corretto e cosa no. La mia non è presunzione o la speranza di un ingenuo ragazzino che non sa niente della vita.
Se potessi cambiare il mio paese, incrementerei in primis l’istruzione e poi realizzerei le strutture pubbliche, il sistema sanitario e tutto ciò che è necessario per il popolo. Spesso penso a queste cose e sogno di fare il politico, ma purtroppo non ho la minima possibilità di avvicinarmi a quel mondo. Solo chi studia e chi ha soldi può ambire a raggiungere questo traguardo e a me mancano entrambe le cose.
Non ho avuto l’opportunità di frequentare la scuola, lavoro da quando avevo 12 anni per aiutare la mia famiglia, dopo che i miei genitori sono morti nel ciclone che ha investito il sud del Mozambico nel 2000. Essendo il primogenito tutte le responsabilità sono cadute su di me e quindi su mio fratello minore. Il lavoro nei campi non era sufficiente a sfamare i miei 5 fratelli e mio nonno settantenne, abbattuto dalle fatiche di una vita. Avere quell’età in Mozambico è quasi un miracolo, egli è il saggio del paese rispettato da tutti, ma non poteva provvedere alla nostra sussistenza. Così ho dovuto inventarmi un secondo lavoro.















Trovavo un passaggio per raggiungere la nostra capitale o prendevo il “chaspa”, il tipico pulmino di Maputo e l’unico mezzo a disposizione se non possiedi una macchina. Mi collocavo lungo la via affollata del mercato e aspettavo i clienti. Che cosa facevo? Il “sapateiro”, ovvero il ciabattino, facendo uso dei vecchi e arrugginiti strumenti del nonno. E’ un lavoro umile, che rende dai 2000 ai 3000 metacais per servizio, che si tratti di una lucidata o di una rammendata alle scarpe.
Per rendere l’idea un riso di bassa qualità costa sui 7000 mt, perciò con quello che guadagnavo compravo le cose indispensabili alla vita che non potevo ricavare dalla terra: sale, sapone, zucchero…
All’inizio era stata dura, ma con il tempo tutto era rientrato nella normalità e riuscivamo a cavarcela discretamente. Lavorare nel campo era molto faticoso e stressante, andare in città era quasi un divertimento a confronto. Ecco, è qui che mi sono innamorato per la prima volta del mio paese. 
Non fraintendete, io ho sempre amato il luogo in cui vivevo, ma fino ad allora la mia percezione del mondo era stata infatti molto limitata, vivendo in una periferia fatta di sterminati campi di terra interrotti da qualche cumulo di casupole di mattoni, di lamiera o di paglia. Vivevamo in una piccola casa col pavimento di terra battuta contenente le cose essenziali e anche la televisione, non eravamo proprio fuori dal mondo, ma il tempo nelle zone rurali sembra quasi rallentare; c’è una serenità che la città non può dare, sicuramente, ma io mi sentivo impotente di fronte a questa immensa e potente natura che provocava spesso immani catastrofi. Avvertivo che mi mancava qualcosa, mi sentivo quasi soffocare in certe occasioni, come se il mio subconscio si rendesse conto che il luogo in cui vivevo non fosse adatto a me.



Il mio luogo era Maputo, una capitale reale e viva, di un milione e 200 mila abitanti (se non di più). Qui si respira un’aria diversa, c’è sempre attività e fermento, c’è rumore e confusione, c’è gente che parla, ride, urla e che cerca di vendere i propri prodotti al mercato, che è un vero e proprio viluppo dibancarelle con i colori della frutta che si combinano a quellidelle variopinte “kapulanas” (stoffe tradizionali dai vari usi) delle donne. Queste ultime girano per la città con bacinelle in testa colme di arance o altra frutta, la gente cammina lungo strade asfaltate in epoca coloniale, o strade polverose e piene di solchi, dove l’asfalto è solo un vago ricordo. Caratteristico di queste vie è il fatto che puoi capire subito dove ti trovi, a seconda degli odori: di cibo, di polvere, di immondizia, di pesce…A volte possono essere davvero fastidiosi sommati al caldo torrido, ma ormai ci ho fatto l’abitudine.
Maputo è unica e io mi sento parte di essa, ma so che non è tutto oro quel che luccica. Questa città è anche contraddizione, una fusione di povertà e ricchezza, testimoniata dalle villette a schiera per i ricchi circondate dal filo spinato elettrificato, come delle riserve per gli elefanti. Poi magari giri l’angolo e ti ritrovi davanti la vera Africa: quella fatta di edifici fatiscenti, di carreggiate dissestate, di mendicanti, di una marea di bambini che giocano con un pallone e che per quel poco che hanno, sono felici.



Questa è Maputo ed è anche un po’ tutta l’Africa: i veri valori non sono quelli che pullulano in Occidente come la ricchezza e il potere, ma quelli che tengono uniti una famiglia come l’amore, la condivisione di un pasto frugale riuniti intorno al fuoco, i canti e le danze…questa è la vera felicità e ogni volta che torno a casa la sera, me ne convinco sempre di più.

Guenda Dal Cin - Italia

RACCONTO TRATTO DAL LIBRO : VI RACCONTO L'AFRICA (Quattordici racconti scritti da studenti italiani, kenyoti e congolesi).