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17 gennaio 2015

ATTRAVERSO I TUOI OCCHI

TRATTO DAL LIBRO : VI RACCONTO L'AFRICA
Quattordici racconti scritti da studenti italiani, kenyoti e congolesi.



Africa. Per me significa tornare col pensiero al periodo più intenso e felice della mia vita. Se chiudo gli occhi e mi soffermo a pensare per brevi momenti, mi tornano alla mente lunghe distese erbose assolate, ombreggiate ogni tanto da qualche chioma d'albero isolata; gli interminabili spazi; i branchi di grandi erbivori che ogni anno attraversano la savana superando il Tana verso terreni più rigogliosi; le donne chine a raccogliere i primi frutti del duro lavoro nei campi di patate; alture lontane che si stagliano all'orizzonte contro il cielo azzurro che si tinge di nero neiperiodi delle grandi piogge, riversando tutta insieme la tanto anelata acqua per le valli e i villaggi.
Io vedo. Vedo il paesaggio dell'Africa e lo rivivo con lo stesso stupore e la stessa meraviglia con cui la prima volta il mio sguardo si è posato su questo mondo sperduto e tanto lontano dalla mia civiltà.


Ricordo la sensazione di smarrimento che mi pervase a seguito della stanchezza del viaggio. Allora provai un brivido di paura per il passo intrapreso. Perché mi ero esposto ad un simile rischio e quale profitto avrei ricavato da una simile decisione?
La distesa d'erba della savana pareva infinita ... e là, poco fuori la stazione ferroviaria, a bordo di una jeep tutta impolverata, mi aspettava padre Piero, il carmelitano che con quel suo piglio deciso e disarmante mi aveva convinto mesi prima ad accettare la sua proposta: "Vieni anche tu a condividere con noi l'esperienza della nostra missione in Africa".
Dopo la specializzazione in oculistica, lavoravo già da quattro anni a tempo pieno nell'ospedale della mia città dove, tra le altre cose, effettuavo interventi chirurgici. Da tempo, tuttavia, avevo la sensazione di non riuscire a realizzare completamente me stesso in quel luogo da cui spesso mi sentivo estraneo. Volevo fare di più, volevo andare oltre il limite di quella vita che si ripeteva uguale, giorno dopo giorno. Fu così che, quando arrivò l'occasione, la afferrai,quasi senza riflettere. Desideravo poter cogliere al volo una nuova opportunità. Alla fine, seppur combattuto, accettai e partii con una buona dose di incoscienza, senza pensare alle conseguenze.



La prima impressione che ebbi dell'ambiente in cui fui catapultato fu di estrema miseria e povertà: arrivato a Mombasa in treno da Nairobi, mi trovai sommerso da una folla di donne e bambini in abiti locali che scendevano e salivano sui vagoni con una suggestiva raccolta di oggetti artigianali in legno e che allungavano speranzosi le mani colme di questi manufatti, tentando di attirare l'attenzione dei viaggiatori perracimolare qualche soldo.
Il tragitto in auto mi condusse ad un piccolo villaggio nel cuore della Savana non lontano da Pemba: la mia nuova dimora per i prossimi mesi. Là, i padri della missione avevano promosso la costruzione di un centro di cura per chi era affetto da morbi visivi, come la cataratta e soprattutto l'oncocercosi, una delle più gravi malattie infettive e parassitarie dell'Africa, provocata da un nematode trasmesso all'uomo in forma larvale da alcuni Ditteri e che spesso si localizza negli organi visivi causando, nella maggior parte dei casi, cecità. Tante erano le persone in queste regioni africane affette da tale patologia, che non me ne resi conto finché non vidi io stesso sfilare una folla pacata e ordinata dalle pianure e dai villaggi lontani, aggrappata alla tenue speranza di poter riacquistare un giorno la vista. Tra questi un numero sbalorditivo era costituito dai bambini che, giovanissimi o sin dalla nascita, erano diventati completamente ciechi, a causa di questo morbo dovuto alle misere condizioni igieniche e sanitarie di quei luoghi.




Il centro in cui i padri avevano stabilito la propria missione era dotato di strumenti necessari per eseguire interventi e accogliere chi aveva bisogno di cure immediate e urgenti. Le sale operatorie erano certo limitate, ma con mio grande stupore scoprii come fosse ben organizzato il personale medico:oculisti e infermieri, accompagnati da alcuni volontari, erano sempre disponibili e la loro forte determinazione presto cominciò a contagiarmi e a darmi motivo di credere che, finalmente, sarei riuscito a trovare la mia strada e il mio ideale di vita.


Probabilmente fu anche grazie alla mia volontà e al mio ottimismo che riuscii senza troppe difficoltà ad integrarmi quasi subito in questo ambiente così diverso da quello da dove provenivo. I padri e gli altri missionari, laici ed ecclesiastici, si mostrarono estremamente cortesi ed io cominciai ben presto ad essere benvoluto anche dagli indigeni, da quella gente che con la semplicità del suo sorriso mi gratificava e incoraggiava ogni giorno.
Imparai gradualmente le espressioni della lingua locale, appresi le loro tradizioni e abitudini, quasi affascinato dalla dignità del loro modo di affrontare la vita. Tuttavia la gioia più grande era poter ridare la vista a esseri umani che ora possono assaporare i colori della vita e ricominciare a vivere in
una nuova luce.
Lavoravo instancabilmente tutto il giorno e trascorrevo i pochi momenti liberi fianco a fianco con gli altri volontari, tra cui anche molti indigeni che avevano avuto modo di apprendere da noi l'arte medica ed ora erano in grado di condividere le nostre fatiche e di assisterci negli interventi o nel dispensario.


Fu però ad un mese di distanza dal mio arrivo che ebbi modo di vivere realmente l'esperienza più dolce e commovente della mia vita. Ripenso continuamente al momento in cui, durante una giornata umida, sotto un cielo plumbeo, mi portarono Amid, un bambino di sette anni, spaurito e timido, cieco dalla nascita per via di quella terribile "malattia del fiume", nome con cui gli indigeni chiamano l'oncocercosi. Fu un lungo intervento durante il quale subentrarono anche alcune complicazioni. Il bambino era mal nutrito, debole, perciò preferimmo tenerlo sotto osservazione per un po' di tempo. Quando le cure cominciarono a fare effetto, lo affidammo a sua madre. 
Durante la convalescenza ebbi l'occasione di conoscerlo più a fondo: conquistai a poco a poco la sua fiducia e nacque tra noi una grande amicizia. Mi raccontò del suo paese, del padre morto durante gli scoppi della guerra etiopica del '99 e della necessità di fuggire e di cercare rifugio altrove. Io ascoltavo con comprensione ed attenzione, ma anche con un profondo peso sul cuore.
Conoscendo la triste storia della sua vita, ridargli la vista era diventata una necessità, una promessa che dovevo mantenere ad ogni costo. Il momento più emozionante fu quando Amid, tolte le bende, fu in grado per la prima volta di vedere il volto di sua madre: come piansi quel giorno! E come piango ancora quando torno con la mente a quegli istanti di intensa commozione.

Una volta venne in ambulatorio a cercarmi e, prendendomi per mano, mi condusse fuori fino ad una collina verde che sovrastava il paesaggio. Mi fece stendere a terra e mi invitò a guardare in alto, nel cielo terso, dove stava il suo papà che vegliava su di lui e su sua madre. Imparai a vedere l'Africa coi suoi occhi, col suo pensiero, col suo sguardo candido edisincantato... Da allora le nostre gite si fecero più frequenti: non appena concludevo i miei turni, uscivo con lui ed entrambi andavamo in quel luogo sperduto, lontano da tutto e da tutti. Noi con la nostra Africa. Potevo assaporarne il profumo, sentirne gli odori, ascoltare il suono del vento che mi scompigliava i capelli, respirare un'aria per me sconosciuta ... libertà ... bellezza ... volontà di vivere.

Serbai nel cuore ogni singola esperienza di quei mesi. Non volevo più andarmene, ma era giunta l'ora del ritorno. L'ultimo ricordo che conservo di Ami d è il momento della partenza: mi portarono alla stazione di Mombasa e il piccolo mi accompagnò davanti al treno. Mi voltai verso di lui: mi abbracciò forte. Gli sussurrai dolcemente con le lacrime agli occhi di non scordarsi di me. Mi porse un piccolo foglio che il giorno prima mi aveva chiesto: aveva fatto uno schizzo della nostra collina. Sulla cima, stagliate contro il rosso fiammeggiante del tramonto, due figure vicine...
Quando il treno si allontanò piano dalla banchina, mi sporsi dal finestrino aperto. Mi rimarrà sempre impressa l'immagine di quella madre con in braccio il suo bambino che mi osservava allontanarmi. Il suo sguardo esprimeva riconoscenza e gratitudine.


Lasciando l'Africa mi ricordai della frase che padre Piero era solito ripetere ai suoi ragazzi e ai volontari della sua missione:

"Lavoriamo insieme per realizzare i progetti dipinti negli occhi dei bambini".

Andrea Mazza - Italia

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