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20 giugno 2017

I FIGLI DI NESSUNO. L'AFRICA DEI BAMBINI DI STRADA



Sta correndo alla velocità che i suoi nove anni gli permettono, non vuole farsi prendere, non può. Stringe al petto un sacchetto di arachidi, il suo bottino. Ma cento grandi mani sono già pronte a bloccare la sua fuga e a dare inizio al rito delle botte forti e impietose. La storia di Jacop è la solita storia di fango, fame, mosche. È uno dei tantissimi enfants des rues che hanno preso casa nelle strade della Repubblica Centrafricana. Dodicimila se ne contavano nel 2009 nella sola capitale Bangui. E oggi se ne è perso il conto.

Monsieur Evariste, assistente sociale ivoriano, scappato dalla sua terra in guerra e arrivato nel quinto paese più povero del mondo, ora prova ad occuparsi di loro. Racconta che è la presenza dei ribelli a Birao, nel nord del paese, a contribuire, dal 2000, alle continue migrazioni verso la capitale, unica zona in cui è garantita una provvisoria sicurezza. Aggiunge anche che, all’affollamento della città come alla miseria, sono imputabili le situazioni di sporca promiscuità dove sessualità e infanzia sono un triste quanto diffuso binomio. I risultati sono madri con solo 9 anni di differenza dal loro nascituro e dodicenni con l’AIDS.

Ma a popolare le strade oltre ai bambini abbandonati da mamme-bambine, agli orfani che dormono tra il fango, a pochi centimetri dalle fogne a cielo aperto, ci sono anche gli enfants des rues “diurni”. Sono quelli che, mentre la madre è fuori a cercare cibo da qualche parte e il padre con una birra in mano barcolla da un’altra, rubacchiano e spacciano finché non tramonta il sole. Anzi il mercato della droga predilige questi piccoli che devono portare a casa qualche soldo e ne fa i suoi privilegiati corrieri per la vendita delle dosi di marijuana e di altre sostanze che vengono  importate dal Ciad,  dal Sudan e dal Camerun.


Anche qui come gli altri sparsi nel mondo, i figli di nessuno si organizzano in clan e cercano di sopravvivere. Al PK5, il più grande mercato rionale del paese, li si vede dappertutto; vivi e vivaci con i piccolini di 4-5 anni per mano, pronti a rubarsi il pranzo. Oppure morti, picchiati a sangue e lasciati soli con le mosche, vicino alla bancarelle dei tessuti. “Perché qui”, ripete più volte l’assistente sociale, “sono il capro espiatorio di tutto e di tutti”. Quando c’è una rapina, quando va a fuoco un carretto o non si trova più un paio di infradito si cercano loro, subito, e se sopravvivono alla folle violenza della gente del mercato, vengono portati nelle prigioni di stato dove condividono la cella con detenuti adulti e dove, quindi, si sprecano gli episodi di violenza sessuale destinati a rimanere impuniti. Non per niente il carcere è l’unica struttura che lo stato predispone per far fronte alla situazione dei bambini di strada.

Per sopperire a questa mancanza, grazie alla solidarietà internazionale raccolta da quella locale, si sono costituiti 7 centri, di cui “La voix du coeur” che si occupa del recupero dei bambini soldato. Fledì, il responsabile di uno dei centri d’accoglienza, ad esempio, si avvicina agli enfants incontrandoli per strada e offrendo loro del sapone. In un secondo momento li invita a raggiungerlo nel capannone dove è in grado di offrirgli un riparo per la notte. Solo il mercoledì, però. Solo una volta alla settimana perché l’affitto della tettoia è troppo costoso per il suo stipendio da educatore centrafricano. Altre strutture, perlopiù di matrice cattolica, hanno invece la possibilità di fornire un’ospitalità  completa che in alcuni casi prevede anche la formazione didattica e professionale.

Ma quando anche in questi orfanotrofi il limite capienza diventa un problema, si cerca almeno di offrire agli enfants un pacchetto scolastico che comprenda il servizio mensa. O meglio un servizio mensa che ne comprenda uno didattico. Perché, lo sanno bene gli educatori, i bambini  sono disposti a lasciare per qualche ora la loro strada e a seguire le lezioni solo e soprattutto per la promessa di un pasto.

Alcuni di loro, in questo modo, imparano il francese e si salvano dalla miseria culturale che parla il Sangò, il dialetto locale, e che cancella i diritti perché li rende inascoltabili. Devì, Annalise, Francois, dodici anni in tre, sono tra questi “fortunati” che vanno a scuola. E infatti canticchiano una filastrocca in francese mentre scelgono, tra il puzzo dei rifiuti, lo sporco della fogna, gli avanzi di una giornata di mercato, il loro giaciglio.

Miryam Scandola
ilnazionale.net
2 ottobre 2012

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