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27 febbraio 2017

FAVOLE E FIABE AFRICANE : FRATELLI GEMELLI

Una donna aveva due figli gemelli, ai quali aveva messo nome Lemba e Mavungun. Il giorno della loro nascita, uno stregone aveva consegnato alla mamma due pietre tonde e lisce.
- Questi saranno i talismani dei tuoi figli: - le aveva detto - appendili al loro collo e, quando saranno grandi, di loro che non se li tolgano mai.
Cosi la donna aveva fatto, e i ragazzi erano cresciuti ed erano diventati due bellissimi giovani. 
Un giorno, Mavungun, stanco della solita vita, decise di partire.
- Io non ho niente in contrario; - disse la madre - ma siamo talmente poveri, che non posso darti niente da portare con te.
- Questo non importa:- rispose il giovane - è ormai il momento di mettere alla prova la potenza del mio talismano.
Salutò la madre e il fratello e si diresse verso la foresta. Qui giunto, colse alcuni fili d'erba, li tocco con il talismano e...
- Che tu sia un cavallo! - disse, buttando per terra il filo più lungo.
- Che tu sia un coltello! - continuò, piegando un altro filo d'erba.
- Che tu sia un fucile! - comandò a un terzo filo d'erba.
Immediatamente un bel cavallo scalpitò davanti a lui, un coltello s'infilò nella sua cintura e un bellissimo fucile appeso alla sua spalla. Mavungun, tutto contento, salì sul cavallo e partì. Cavalcò per parecchio tempo, finché a un certo punto, si sentì stanco e affamato.
- Talismano mio, mi farai morire di fame? - disse, toccando la pietra.
Subito, davanti a lui, apparve un sontuoso banchetto. Il giovane scese da cavallo, mangiò e bevve a sazietà, poi tutto allegro riprese il viaggio.
Dovete sapere che, non lontano dal posto dove Mavungun si era fermato a mangiare, c'era una bellissima città. Essa era governata da un re che aveva una figlia, assai capricciosa. La fanciulla era in età da marito, ma, per quando già molti l'avessero chiesta in sposa, ella aveva rifiutato a tutti la sua mano. Mavungun giunse nella città e si fermò sulla riva del fiume. Qui c'era anche la fanciulla, con molte altre compagne; appena vide il giovane straniero, tornò di corsa dal padre e dalla madre e disse loro:
- Ho visto l' uomo che voglio per marito e morirò se non lo sposerò!
Il padre mandò i suoi schiavi incontro al giovane straniero e lo invitò a banchetto nella sua casa.
Mavungun fece al re un'ottima impressione, tanto che, quando il giovane gli offrì molto doni preziosi, non esitò a proporgli di sposare la figlia. Così, con grande allegria e gioia per tutti, si celebrarono le nozze. Nella casa degli sposi c'erano tre grandi specchi accuratamente coperti. Mavungun, preso da una grande curiosità, volle sapere perché fossero coperti. La moglie gli rispose che era molto pericoloso guardarvi, ma Mavungun insistette tanto che la fanciulla alzò la stoffa che ricopriva il primo specchio e... subito il giovane vide la sua città natale, con tutte le sue strade e la sue case.
- Chi guarda in questo specchio, - disse allora la moglie - vede la città nella quale è nato. Nell'altro specchio, ciascuno vede le città che conosce e che ha visitato nei suoi viaggi.
E così dicendo, scoprì il secondo specchio.
- E il terzo specchio?
- Il terzo non lo puoi scoprire perché vedresti l'immagine della città dalla quale non si torna.
- Fammela vedere ! - gridò Mavungun, e strappò la tela.
L'immagine che gli apparve era terribile, ma il giovane la fissò intensamente e si sentì preso da un grande desiderio di andare in quella città.
- Ti scongiuro, non andarci, perché non tornerai mai più! - lo implorò la moglie.
Ma il giovane era deciso; prese il suo cavallo e partì. Cavalcò e cavalcò per tanti mesi, finché un giorno, guardandosi intorno, vide una vecchia, che stava seduta presso un mucchio di sassi bianchi e neri.
- Vecchia, hai un po' di fuoco per la mia pipa? - chiese Mavungun.
- Scendi da cavallo e avvicinati - rispose la donna.
Mavungun si avvicinò, ma appena la vecchia gli ebbe toccato la mano, il giovane fu trasformato in una pietra nera e il suo cavallo in una pietra bianca. 

Il tempo passava, e Luemba era molto meravigliato che il fratello non avesse mai mandato sue notizie; così un giorno; decise di andare alla sua ricerca. Se ne andò nella foresta, colse un pugno d'erba e, per opera del suo talismano, fece
trasformare un filo in un cavallo, un secondo filo in un coltello e un terzo filo in un fucile e poi partì. Dopo parecchi giorni arrivò nella città in cui Mavungun aveva preso moglie.
- E' tornato Mavungun, lo sposo della figlia del re!
Appena sceso da cavallo, vide una bellissima fanciulla, che gli veniva incontro dicendo:
- Finalmente sei tornato.
Luemba cercò di spiegare che non era Mavungun.
- Vuoi scherzare, marito mio - lo interruppe la donna, e si mise a ballare per la gioia.
Luemba tentò invano di spiegare chi fosse, ma né la moglie del fratello, né il re, né gli altri abitanti vollero credergli; alla fine, anzi, nessuno stette più ad ascoltarlo. Perciò il giovane dovette tacere e indagare per conto suo, per scoprire che fine avesse fatto Mavungun. L'occasione si presentò subito, perché, quando Luemba entrò in casa, la moglie del fratello gli disse ridendo:
- Spero che avrai perso la voglia di guardare negli specchi!
- No, invece; - disse subito Luemba, - anzi, ti prego di farmeli rivedere.
Questa volta la giovane non si fece pregare e Luemba poté vedere la città dove era nato, poi i luoghi che aveva attraversato viaggiando, e infine guardò interessato la città dalla quale non si torna. Capì subito che quello era il posto dove il fratello era andato e dal quale non era tornato; perciò, senza perdere tempo, disse:
- Mi ricordo ora di aver lasciato laggiù una cosa molto importante. Vado e ritorno al più presto.
- Va pure, marito mio; sei appena arrivato, ma, se pensi di dover ripartire, io ti aspetterò. Ma fa presto.
Luemba montò a cavallo, prese il coltello e il fucile e corse via al galoppo. Cavalca cavalca, eccolo arrivare in vista del mucchio di pietre bianche e nere; Accanto al mucchio, stava seduta la solita vecchia.
- Vecchia, hai un po' di fuoco per la mia pipa? - domandò Luemba.
- Scendi da cavallo e avvicinati - rispose la vecchia.
Luemba scese da cavallo, ma invece di stendere la mano verso la donna, le scagliò addosso il suo talismano. Fu un attimo: il terreno si aprì e la vecchia scomparve mandando un grido terribile.
Subito Luemba si avvicinò al mucchio di pietre e cominciò a toccarle con il suo talismano: le pietre nere si trasformarono in tanti giovani e le pietre bianche in altrettanti cavalli. Naturalmente in mezzo agli altri, Luemba riconobbe subito Mavungun, e i due fratelli si abbracciarono con molta gioia. Poi rimontarono a cavallo e, senza indugiare, tornarono nella città dove la moglie di Mavungun aspettava pazientemente il marito. Potete immaginare quale fu la meraviglia di tutti, nel vedere i due fratelli così uguali l'uno all'altro. 
Vi furono grandi feste, che durarono tre giorni e tre notti e fu ordinato un sontuoso banchetto al quale parteciparono tutti gli abitanti della città. Poi Luemba ripartì e tornò nel villaggio natale: la madre ansiosa gli corse incontro chiedendogli notizie di Mavungun; egli la rassicurò sulla sua salute e le raccontò quando era accaduto; poi la condusse nella città dove Mavungun era diventato l'erede del re e là ella trascorse felice i suoi ultimi giorni.
Nel frattempo Mavungun e la moglie entrati in casa s'accorsero che i tre specchi non c'erano più, infatti la magia aveva voluto che nello stesso momento in cui la vecchia era scomparsa, scomparissero anche le tre lastre lucenti. 
E così nessuno ha più saputo dove fosse la città dalla quale non si tornava più indietro.

www.letturegiovani.it

19 febbraio 2017

DALLA TRADIZIONE ORALE AFRICANA : IL GIORNO IN CUI AHMED SCOREGGIO'

@thom.pierce
Ahmed era un giovane commerciante di un piccolo villaggio africano e decise, un giorno, di parlare al Consiglio degli Anziani di un problema che gli stava a cuore. Chiese, dunque che il Consiglio venisse convocato e si recò ad esporre il suo pensiero.
Sfortunatamente, egli aveva mangiato degli alimenti poco adatti, che gli avevano procurato un gran mal di pancia, per cui, durante la sua esposizione, a causa di un movimento brusco, perse momentaneamente il controllo del proprio corpo e si lasciò sfuggire una rumorosa scoreggia! …”.

A questo punto, devo interrompere un attimo il racconto per spiegare che molte culture africane considerano i rumori in questione come estremamente offensivi,
soprattutto quando fatti in pubblico. Sono tanto sensibili all’argomento che tanto nelle latrine pubbliche che in quelle private, esistono delle grosse pietre che vengono scrupolosamente mantenute pulite, che sono usate solamente per essere battute le une contro le altre, per produrre un rumore artificiale destinato a coprire quello “naturale” in questione. Ciò, appunto perché tale rumore sarebbe considerato offensivo da chiunque si trovasse a passare nelle adiacenze del luogo “igienico” in questione.
Ma continuiamo la nostra storia:

“… Inutile dire che Ahmed interruppe la sua esposizione al Consiglio degli anziani e corse a nascondersi nella sua capanna, affranto dalla vergogna. Durante la notte, però, l’uomo non riuscì a superare la vergogna dell’atto che aveva, seppur involontariamente compiuto, e decise di abbandonare il suo villaggio natio. Detto fatto, imballò alcune cose, pose il basto ai suoi due asini, li
caricò con le sue poche cose, e lasciò in fretta la sua casa ed il suo villaggio.

Passarono vent’anni ed Ahmed, che si era trasferito in una città lontana dove aveva fatto fortuna diventando ricco e rispettato, sentiva sempre più nostalgia per il suo villaggio nativo e decise di ritornare a visitarlo. Fece quindi sellare il suo miglior cavallo e caricare molti ricchi regali destinati ad i suoi compaesani su due animali da soma e si diresse verso la sua agognata meta.
Durante il viaggio, però, il povero Ahmed venne preso da sconforto al pensiero che, negli abitanti del suo villaggio, potesse essere ancora vivo il ricordo della sua mancanza e continuò a sperare fortemente che i suoi compaesani lo avessero, invece, dimenticato.
Arrivato, in vista del villaggio, il suo coraggio diminuì ed egli decise, come primo passo del suo ritorno, di capire se era stato fortunato: forse gli abitanti avevano
veramente dimenticato l’episodio! Questa sua rinnovata speranza sembrava, a prima vista, confermata dal fatto che già alcune persone della sua età lo hanno visto in groppa al suo cavallo, senza dar segno di averlo riconosciuto. Decise allora di parlare con la prima persona disponibile a farlo. Immediatamente dopo che Ahmed ha preso questa decisione, passò vicino a lui una giovane donna che trasportava dei recipienti pieni di acqua che aveva appena attinto al vicino pozzo del villaggio. Nel desiderio di riallacciare il suo legame affettivo col suo villaggio, Ahmed si finse assetato e le chiese da bere; la donna, fedele alla tradizione di
ospitalità della loro gente, gli versò una ciotola d’acqua e gliela porse. Ahmed bevve e cercò di intavolare una discussione. “Grazie figlia mia!...” le disse, poi,
notandone la giovane età, le chiese: “… quanti anni hai?”. La giovane donna, chiaramente illetterata, ci pensò un po’, si grattò pensosamente la testa, poi
confessò: “Non so contare quanti anni ho, ma so che sono nata due anni dopo che Ahmed scorreggiò al Consiglio!” 

La storia finisce qui!
Ma... se le persone che la ascoltano, conoscono veramente cosa sia la tradizione orale, esse comprendono immediatamente che il povero Ahmed è stato molto sfortunato: non solo il villaggio non ha dimenticato l’episodio, ma esso è entrato a far parte della sua tradizione orale!
Perciò tra coloro che ascoltano la storia, chi è veramente conscio di cosa implichi una tradizione orale ride a squarciagola, mentre chi non ha una grande familiarità con i vari aspetti di tale tradizione, si limita a ridacchiare!
Il fatto è che l’Ahmed di questa nostra storia è stato veramente sfortunato: sarebbe bastato che in quei vent’anni passati altrove si fosse verificato un altro episodio degno di nota: la nascita di un vitello a due teste, una rissa od una carestia, e l’episodio della sua vergogna sarebbe stato dimenticato. Invece la monotonia della vita del suo villaggio aveva fatto dell’episodio,relativamente insignificante, una pietra miliare della storia tramandata verbalmente nel villaggio, a partire della quale si contava il passar del tempo! 

Tratto da : Racconti africani (L'Africa in noi)
di Franco Siciliano

10 febbraio 2017

LA FAVOLA AFRICANA DEL COLIBRI


Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all'avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.

Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l'incendio stava per arrivare anche lì.
Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d'acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento.

Il colibrì, però, non si perse d'animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d'acqua che lasciava cadere sulle fiamme.

La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: "Cosa stai facendo?". L'uccellino gli rispose: "Cerco di spegnere l'incendio!".
Il leone si mise a ridere: "Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?" e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l'uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un'altra goccia d'acqua.
A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco.

Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d'acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme.












Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d'animale si prodigarono insieme per spegnere l'incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume.

Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell'antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell'aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.

A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l'arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l'incendio poteva dirsi ormai domato.
Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.

Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: "Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d'acqua può essere importante e che «insieme si può» spegnere un grande incendio. D'ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo".

05 febbraio 2017

FAVOLE E LEGGENDE AFRICANE - UOMINI E COLORI (Benin)


Questa che mi accingo a narrare, è una leggenda che ci viene dalla Repubblica del Benin – l’antico Dahomey – e riflette tanto l’arguzia, che la poesia e l’antica redizione di “negritudine”, che le popolazioni di origine Yoruba, Dahomey e Haussa hanno sviluppato nel tempo.
Si tratta di un mito che racconta come le varie razze umane si differenziarono tra di loro, e, racconto folkloristico a parte, è oggi interessante che gli studi recenti abbiano confermato che l’origine della razza umana, cioè di quella che oggi noi chiamiamo dell’homo sapiens. Eccola:

“Tutti gli uomini hanno avuto origine in Africa. Nei tempi antichi, tutti gli uomini avevano tutti la pelle molto nera, ed il loro corpo era tutto interamente nero, con l’esclusione del bianco degli occhi.

Siccome si erano moltiplicati in grande numero, e la terra del paradiso era limitata, essi decisero di migrare altrove. Non sapevano, però, che il paradiso, luogo in cui vivevano, era circondato da un fiume magico, le cui acque avevano il potere di sbiancare tutto ciò che si immergeva in esse, per almeno un certo tempo. Fu così che gli uomini (allora tutti interamente e uniformemente neri), che fino a quel tempo avevano sempre vissuto insieme, si separarono in gruppi.
Il primo gruppo, quello dei più impulsivi e meno riflessivi, arrivò al fiume e non si accorse che le sue acque erano magiche. Sicché quegli uomini e quelle donne lo attraversarono a nuoto e prendendo tutto il tempo che era loro necessario per trasportare le loro cose. Quando finirono l’esodo, e tutti i membri del gruppo e tutte le loro cose erano dall’altra parte del fiume, essi si accorsero di ciò che era capitato loro: erano tutti diventati bianchi, perdendo il pigmento nero, segno di bellezza e di purezza.
Così nacque il gruppo degli uomini bianchi, che viaggiò verso Nord, stabilendosi in tutti i luoghi posti immediatamente a Nord dell’Africa, dove trovarono un buon rifugio : l’Europa.
Il secondo gruppo che arrivò al fiume magico, era composto di individui più svegli, o forse dotati di un miglior istinto. Arrivati al fiume, si accorsero che qualcosa non andava e decisero di accorciare il periodo di tempo che dovevano passare nelle acque del fiume stesso.
Per prima cosa, essi cercarono un guado migliore, che non li obbligasse a restare molto tempo in acqua. Poi intrecciarono delle corde ed alcuni di loro nuotarono il più rapidamente possibile all’altra sponda, tirarono le loro cose con le funi, e poi fecero passare il corso d’acqua rapidamente alle persone, tirandole in fretta con le funi.

Alla fine di quell’esercizio, essi avevano perduto solamente una parte del prezioso pigmento nero ed erano diventati di colore bianco scuro o giallo scuro. Essi lasciarono il posto d’origine e s’incamminarono verso oriente. E fu così che gli uomini mori e quelli gialli popolarono l’Arabia e l’Asia.
Gli appartenenti al terzo gruppo umano, essendo individui più furbi e più intelligenti, arrivando al fiume magico, si accorsero anche loro che qualcosa non era normale, ma essi erano anche più prudenti e riflessivi dei gruppi che li avevano preceduti, e decisero di fare una prova per comprendere la natura del problema. Essi entrarono nell’acqua bassissima solamente con i piedi, per cui se ne bagnarono solo le piante ed immersero solamente i palmi delle mani nell’acqua. Poi si ritirarono sulla terra asciutta ed aspettarono di vedere i risultati delle loro abluzioni. Quando si accorsero di aver perduto il prezioso pigmento nero dalle mani e dalle palme dei piedi, essi decisero di spendere le loro energie per evitare del tutto il contatto con l’acqua magica del paradiso.
Costruirono, dunque, delle zattere, con cui trasportarono tutti i membri del loro clan e le loro cose dall’altra parte del fiume. Così gli uomini neri persero il pigmento nero dalle mani e dai piedi, ma decisero di non andare lontano dal paradiso e restarono in Africa, vicino all’Eden, con la loro pelle nera eccetto che sulle palme delle mani e dei piedi, e lo fecero con rammarico, perché il color nero è simbolo di bellezza e di purezza!" 


Personalmente io trovo che questa leggenda rifletta bene lo spirito di “negritudine” delle popolazioni che oggi vivono nell’area geografica in questione e che essa sia anche molto divertente, soprattutto perché alcuni gruppi di uomini bianchi sono, nei confronti di quelli neri, afflitti da un complesso di superiorità anche più spiccato! 

Tratto da :
RACCONTI AFRICANI (L'Africa in noi)
di L. Franco Siciliano

Illustrazioni © Ruud van Empel

02 febbraio 2017

LA TARTARUGA INGRATA (Fiaba Nigeriana)


Arrivate al banchetto la tartaruga e la capra si accorsero che non si erano portate i piatti da casa, come invece avevano fatto gli altri animali, e che così non avrebbero potuto mangiare tutte quelle leccornie. La capra si offrì di correre a casa per andare a prendere i piatti e così si avviò di corsa per la strada più breve. Nel frattempo la tartaruga, che moriva di fame, pensò che se avesse aspettato la capra tutto il cibo sarebbe finito, e così si fece prestare un piatto dalla sua amica lepre. Con grande avidità si mangiò tre piatti di zuppa e rimase in attesa delle altre portate dimenticandosi della capra che nel frattempo era arrivata a casa. Al suo ritorno la capra trovò solo piatti vuoti e delusa si sedette su un tronco d´albero. La tartaruga sorridendo le disse di essere stata un po' più fortunata e che la lepre aveva condiviso con lei il suo piatto. Quando la capra rimproverandola le disse che avrebbe potuto lasciarle da parte qualcosa, la tartaruga rispose che di cibo ce ne era davvero poco. La capra
si accorse che l´amica non diceva la verità ma non volle litigare davanti a tutti e così tacque a malincuore. Quando fu portato in tavola il vino la capra e la tartaruga si accorsero di aver lasciato a casa anche i bicchieri, ma la povera capra, che aveva tanto corso, aveva davvero sete e così decise di rifare un´altra volta la strada per andare a prendere i bicchieri facendosi però promettere dall'amica che le avrebbe lasciato un po' di vino. Ma
quando il leone fece portare in tavola il frizzante vino di palma la tartaruga si dimenticò ben presto della promessa fatta e andò mendicando un sorso di vino dagli altri animali. Anche il vino di palma ben presto finì. Quando la capra tornò si accorse della non mantenuta promessa della tartaruga e, sebbene quest´ultima si prodigasse in mille scuse, non le rivolse più la parola. In quel momento il re degli animali propose di affrontarsi tutti in una lotta con la condizione che ogni animale vinto appartenesse al suo vincitore e lo dovesse servire. La capra, piena di rabbia, si lanciò con slancio nella mischia e batté un gran numero di animali. La tartaruga, dal suo canto, perse subito il suo primo incontro con la iena e iniziò a piagnucolare con la capra convincendola di liberarla dalla prepotenza della iena. La capra, che aveva un buon cuore, la liberò, facendo scambio con la iena con una delle sue sconfitte. Quando la capra decise di tornare a casa con tutti gli animali che aveva sconfitto la tartaruga le propose di passare dai suoi genitori i quali, contenti di sapere che la capra aveva liberato la loro figliola dalla iena, l'avrebbero ricoperta di cibo e regali. La capra si fece convincere ma quando
arrivarono al villaggio la tartaruga iniziò a colpevolizzare la capra davanti ai suoi genitori dicendo che tutti quegli animali li aveva sconfitti lei e che la capra glieli aveva rubati. La povera capra, senza che le fu concesso di aprire bocca, fu portata davanti al re il quale decise di rispedire la capra a casa senza i suoi animali. Fu così che la tartaruga ingrata se ne andò per il mondo con i suoi animali e fondò un villaggio dove fino alla morte regnò su tutti con crudeltà.