Translate

08 aprile 2016

LE BRAVE RAGAZZE NON PROTESTANO

In Sudan le donne vivono già in un contesto fortemente discriminatorio. Quelle che inoltre osano osteggiare il potere del regime El-Bashir pretendendo diritti, come le attiviste o le manifestanti, subiscono abusi gravissimi ed orribili. Un rapporto di Human Rights Watch ne ha raccolto le testimonianze.

  
  
*Martedì 5 aprile si è concluso a Banjul, in Gambia, il Forum delle organizzazioni non governative per promuovere e salvaguardare i diritti umani in Africa. In questa occasione si è parlato della discriminazione femminile nel continente ed è emerso che pur esistendo una buona legislazione in proposito, in Africa la donna è ancora fortemente discriminata. 
In Sudan le donne che si oppongono al regime islamista di Khartoum rischiano di essere vittime di minacce ed abusi forse più e sicuramente in modo diverso degli oppositori uomini. Lo documenta un recentissimo rapporto di Human Rights Watch (Hrw) dal titolo, “Good Girls Don’t Protest”, e dal sottotitolo altrettanto esplicito “Repression and Abuse of Women Human Rights Defenders, Activists, and Protesters in Sudan” (Repressione e abusi di donne che difendono i diritti umani, attiviste, e manifestanti in Sudan).
Le ricercatrici hanno intervistato 85 donne tra il novembre del 2014 e il gennaio di quest’anno. Erano attiviste di diverse organizzazioni della società civile e per la difesa dei diritti umani e hanno documentato attraverso le loro testimonianze gli abusi gravissimi, fino allo stupro di gruppo, a cui sono state sottoposte da parte delle forze di polizia, ed in particolare del servizio per l’intelligence e della sicurezza nazionale (Niss). Molte sono state intervistate a Khartoum o nella città gemella di Omdurman, ma anche in altre aree del paese, come il Darfur e anche all’estero.

Donna inferiore per legge
Questi abusi riflettono la condizione subordinata della donna nella società sudanese da quando il regime islamista del Fronte nazionale islamico, nominatosi poi Partito del congresso nazionale (Ncp) e ancora al governo, ha preso il potere nel 1989. Da allora la legge ha istituzionalizzato la subordinazione delle donne. In particolare introducendo il crimine di offesa alla moralità pubblica in forza del quale sono state obbligate ad adottare un certo modo di vestire, hanno avuto limitazioni nel partecipare alla vita pubblica, possono subire pene degradanti e contrarie alle norme internazionali, quali la lapidazione e l’uso della frusta. Il rapporto fa luce anche sulla generale impunità di chi abusa delle donne, anche in modo gravissimo, come la violenza sessuale di gruppo, e perfino quella perpetrata nelle stazioni di polizia.

Testimonianze orribili
È il caso, ad esempio, di Safiya Ishaq, artista e attivista del gruppo di opposizione giovanile Girifna, organizzatore di diversi momenti di protesta a partire dal 2011. Safiya partecipò alle dimostrazioni del 30 gennaio 2011. Fu presa da due uomini in abiti civili e spinta su una macchina mentre faceva acquisti due settimane dopo. Fu portata in un ufficio del Niss dove fu picchiata, presa a calci, insultata con offese sessiste e interrogata da diversi uomini sulla sue attività. Durante l’interrogatorio venne denudata e svenne. Quando si riprese due uomini la stavano tenendo mentre un terzo la violentava; la violentarono a turno tutti e tre per diverse ore. Poi la rilasciarono senza accuse precise, minacciandola di violentarla ancora se avesse continuato a militare per Girifna. 
Simile esperienza ha raccontato Samia, che ha preferito usare uno pseudonimo, attivista di un partito di opposizione. È stata fermata il 2 aprile dell’anno scorso, pochi giorni prima delle elezioni, mentre usciva di casa per distribuire dei volantini. Tre uomini l’hanno trascinata su una macchina, l’hanno portata in un luogo isolato, l’hanno legata ad un albero e insultata: «Voi donne attiviste e membri di partito siete tutte sharmutte» (cioè prostitute). Infine l’hanno violentata a turno e minacciata di rappresaglie se avesse raccontato l’episodio a qualcuno. Fu poi fermata di nuovo il 25 aprile e minacciata in modo ancor più pesante. Durante l’intervista con la ricercatrice di Hrw, in maggio, faceva fatica a parlare in modo coerente ed era chiaramente traumatizzata.

Indifese
Molto spesso le donne sudanesi non godono di forme adeguate di protezione. Soprattutto chi è vittima di violenza spesso non denuncia l’abuso subito. Molte vengono scoraggiate dalle famiglie per evitare di aggravare la loro già difficile condizione con l’isolamento sociale. Molte altre vengono disincentivate dalle autorità competenti stesse che, neanche troppo velatamente, minacciano conseguenze se non si tiene la bocca chiusa.
È ancora il caso di Safiya, che ebbe il coraggio di tentare di denunciare le violenze subite. Ma alla stazione di polizia le fu detto che il suo racconto non poteva essere veritiero perché le forze di sicurezza non si macchiano di simili colpe. Le fu infine caldamente consigliato di non proseguire con l’azione legale, perché avrebbe macchiato indelebilmente il nome della sua famiglia. Dunque è chiaro che nel Sudan del governo islamista di Omar El-Bashir la violenza è perpetrata impunemente come strumento per isolare socialmente con un marchio d’infamia le donne violate e renderle inoffensive.
Safyia, sotto la pressione del trauma subito e della paura di nuove ritorsioni lasciò il paese nel marzo del 2011 e vive ora in esilio in Francia. Anche Samia è ora in cura all’estero. Come loro, molte altre donne traumatizzate e minacciate hanno preferito iniziare una nuova vita altrove.

Consuetudine
Il rapporto sottolinea come questo genere di abusi siano diventati frequenti soprattutto a partire dal 2011, dopo la secessione del Sud Sudan. Nel paese allora si ebbe un irrigidimento nell’applicazione delle norme derivate dalla legge islamica mentre aumentavano le manifestazioni pubbliche di protesta a causa della crisi economica e della cresciuta instabilità, con l’inizio di due nuovi conflitti, nel Sud Kordofan e nel Blue Nile. Le donne parteciparono numerose e furono particolarmente attive, suscitando il tipo di reazione sopra descritto.

Il 5 febbraio di quest’anno, Hrw ha scritto una lettera al governo sudanese informandolo di quando emerso dalla ricerca e richiedendo informazioni su quanto stava succedendo nel paese riguardo agli abusi verso attiviste e militanti. Al momento della pubblicazione del rapporto non si era avuta ancora nessuna risposta.

Bianca Saini
www.nigrizia.it

07 aprile 2016

I BIMBI DI NAIROBI MERITANO UNA CHANCE

La missione di Claudia all'orfanotrofio di Nairobi


Aveva 18 anni Claudia quando, dopo essersi diplomata, decise di partite in Kenya per un’esperienza di volontariato. Sarebbe stata fuori casa solo per un mese, in attesa di cominciare l’Università. Non sapeva bene di cosa si sarebbe occupata e non aveva troppe aspettative. Quello che non aveva considerato, prima di fare le valigie, è quanto quell’esperienza l’avrebbe segnata.

In quell’estate Claudia lavorò in un orfanotrofio, in una baraccopoli a un’ora da Nairobi. La struttura ospitava 60 bambini di età compresa fra zero e diciotto anni, costretti a dormire anche in quattro nello stesso letto per la mancanza di spazio. La direttrice, ovvero la donna che aveva fondato l’orfanotrofio diverso tempo prima, era aiutata nella gestione solo da sua figlia. Claudia fu da subito un’aiutante preziosa. La prima cosa della quale si rese conto fu che i bambini non mangiavano abbastanza. 
«L’unica fonte di sostentamento per l’orfanotrofio erano sporadiche donazioni - ricorda la ragazza - quindi i bambini erano spesso costretti a saltare i pasti per mancanza di cibo. La cosa mi toccò nel profondo. Quando in occidente si parla di povertà o di situazioni difficili raramente si fa riferimento al cibo, mancano sempre altri beni perché nella nostra società almeno il poter mangiare regolarmente è abbastanza scontato», dice. 
Avendo toccato con mano la durezza di quella vita, destinata a incolpevoli bambini e ragazzi poco più giovani di lei, una volta tornata in Italia, decise di lanciare una raccolta fondi per aiutarli.

Nel settembre 2012 Claudia Puddu ha fondato l’associazione Onlus Give Him a Chance, della quale è presidentessa. 
«Attualmente riusciamo a mandare all’orfanotrofio circa 1000 euro al mese, grazie alla generosità dei nostri 54 soci e sostenitori. Con delle piccole rinunce è possibile cambiare radicalmente la vita di altre persone e credo che vedere i risultati sia davvero gratificante». L’associazione di Claudia mostra costantemente i progressi nella vita della piccola comunità. Grazie al contributo di Give Him a Chance, gli ospiti dell’orfanotrofio possono andare a scuola, «qualcuno è riuscito anche a farsi ammettere all’Università», dice con una punta di orgoglio la giovane studentessa cagliaritana.

La gestione dei fondi è trasparente e precisa. «A differenza di quanto succede in altri casi, noi abbiamo un filo diretto con l’orfanotrofio, non ci sono intermediari e questo ci permette di sapere precisamente in che modo viene speso ogni singolo euro che inviamo. I bambini conoscono alcuni membri della nostra associazione e sono per questo molto più motivati nello studio, è bello per loro che giungono da situazioni veramente difficili in alcuni casi sapere che qualcuno ha creduto in loro». Nei progetti dell’associazione c’è quello di comprare, a breve, una libreria per l’orfanotrofio e anche un pulmino per permettere ai bambini di raggiungere più facilmente la scuola. «Sono felice di aver trovato tante persone disposte a sposare la causa e lavorare con il cuore, gratuitamente nel tempo libero. Per adottare un bambino a distanza bastano 20 euro al mese, ma abbiamo tanti sostenitori che con un contributo di 15 o 30 euro all’anno ci permettono di fare tanto. In quattro anni ho visto l’orfanotrofio cambiare volto, ma c’è ancora tanta strada da fare».

Martina Marras
www.ladonnasarda.it