Translate

26 marzo 2017

SCHIAVITU', IERI E OGGI. UNA PAROLA ANTICA, UN'OMERTA' MODERNA

Da 20 a 45 milioni di persone sono gli schiavi moderni, nel mondo. In catene bambini, donne, migranti, in tutti i continenti. Pare che il giro d’affari della schiavitù globale sia ancora miliardario, anche se le stime sono offuscate dall’omertà, dall’ignoranza, dalla povertà, dall’arretratezza dei sistemi giuridici, dalla pochezza dei mezzi di tracciabilità.

La schiavitù oggi
Al mondo, su mille persone, tre sono schiave. Dai 20 ai 45 milioni di persone a seconda delle (tristi) stime. I tre quinti di sesso femminile, i due quinti maschi. Oltre un quarto sono minori: in tutto il mondo da 6 a 10 milioni di bambine e bambini sono costretti ai lavori forzati, vittime dei traffici sessuali o segregati come sguatteri.
L’International Labour Organization stima che i lavori forzati generino proventi illeciti per 150 miliardi di dollari l’anno: è la seconda fonte di profitto della criminalità organizzata, dopo le droghe.
Esistono lavori forzati, tratta di minori e di donne, schiavitù domestica, prostituzione forzata, schiavitù sessuale, matrimoni forzati, vendita delle mogli, reclutamento di bambini in guerra.

È passato un secolo e mezzo da quando Abraham Lincoln ha abolito la schiavitù, ufficialmente. Quasi settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che la vieta. Ma ancora oggi sono tantissimi i lavoratori sfruttati sull’orlo della schiavitù e il confine tra questa e i lavori più infami e degradanti è labile, a seconda delle coordinate geografiche e culturali.

La schiavitù moderna, il Global Slavery Index, la schiavitù in Italia
Si possono far rientrare nella definizione di schiavitù oggi i lavori forzati, le prestazioni professionali svolte non volontariamente o dietro compenso bensì sotto minacce o costrizioni fisiche. Rientrano in questo nero novero anche la prostituzione, la tratta di umani, lo schiavismo sessuale.
Non si considerano – secondo l’Ilo – forme di schiavitù, invece, i lavori sottopagati o svolti in condizioni ambientali inadeguate, e non si include nel conteggio qualsiasi fenomeno di costrizione, come l’adozione o il matrimonio forzati o il traffico di organi.

Le Nazioni Unite definiscono così il traffico di esseri umani:
Il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o l’uso della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento.

Dunque, nella definizione dell’Unodc, oltre allo sfruttamento sessuale, diretto o a scopo commerciale, altre destinazioni del traffico di esseri umani sono il lavoro forzato, l’espianto di organi per il mercato nero e la schiavitù in senso stretto.
Una stima più allargata che invece include le altre forme di schiavitù moderna è stata proposta dalla Walk Free Foundation che da quattro anni stila il Global Slavery Index – meritoriamente sostenuto da opinion leader e personaggi pubblici come Bill Gates, Bono Vox, Richard Branson, Hillary Clinton, Muhammad Yunus, Gordon Brown, Tony Blair e molti altri.

Secondo il calcolo più onnicomprensivo, gli schiavi nel mondo oggi sono 45,8 milioni.
In cifre assolute, il 58 per cento delle persone schiave al mondo vivono tutte in 5 Paesi: India, Cina, Pakistan, Bangladesh, Uzbekistan. In termini percentuali, pare che il 4,4% della popolazione della Corea del Nord possa considerarsi in schiavitù. Anche in Mauritania si sta male. Ma incredibilmente nessuno dei 167 Paesi considerati dall’indice ne è completamente privo. C’è persino l’Italia, al 141° posto al mondo, dove si troverebbero 129.600 persone in stato di schiavitù. In tutta Europa 1,2 milioni di persone possono considerarsi schiave (Turchia e Macedonia hanno lo 0,6% della popolazione in condizione di schiavitù). I conflitti in Iraq, Afghanistan, Siria, Yemen e Libia esacerbano il problema, con il flusso di migranti e di rifugiati.

I continenti più problematici rimangono Asia e Africa. Ci sono sacche di schiavitù in Sudamerica, nei Balcani e nell’Est europeo. Nel subcontinente indiano, comunque, il governo sta mettendo in atto misure speciali per contrastare le diverse forme di schiavitù: ha recentemente rivisto il codice penale e ha rinforzato le unità di polizia contro il traffico di umani.

La schiavitù sessuale, prostituzione e tratta di donne
L’Ilo ha stimato in 12 milioni e 300 mila le persone sottoposte a sfruttamento sessuale per un volume complessivo d’affari sporchi di 32 miliardi di dollari all’anno.

La linea di demarcazione tra prostituzione forzata e volontaria è molto labile, ed è vista da molti come una pratica abusiva nonché una violenza stessa contro le donne. La tratta a sfondo sessuale implica l'induzione di migranti in atti sessuali come condizione stretta e necessaria per effettuare il viaggio, sfruttando la coercizione, la minaccia e l'usura intervenuta mediante i debiti.
La linea di demarcazione tra prostituzione forzata e volontaria è molto labile, ed è vista da molti come una pratica abusiva nonché una violenza stessa contro le donne. La tratta a sfondo sessuale implica l’induzione di migranti in atti sessuali come condizione stretta e necessaria per effettuare il viaggio, sfruttando la coercizione, la minaccia e l’usura intervenuta mediante i debiti.
Prezzate, vendute, esportate, barattate, umiliate, le vittime finiscono nelle mani dei loro sfruttatori finali. La tratta a scopo di sfruttamento sessuale è diffusa in tutto il mondo.

Pare che lo scenario economico di crisi diffusa abbia favorito un aumento del business mondiale dello sfruttamento schiavistico in mano a organizzazioni illegali. Come i negrieri dell’antichità, grandi gruppi criminali spesso transnazionali reclutano e catturano le donne con la forza, la minaccia o l’inganno, ma anche con mezzi più subdoli, approfittando della condizione di povertà in cui si trovano loro o le loro famiglie.

In Italia la prostituzione ha un giro d’affari di circa 90 milioni di euro al mese e martirizza 100mila giovani donne vittime di tratta, prostituzione coatta e violenza. In Italia si stima che siano tra 75mila e 120mila le vittime della prostituzione. Il 65% è in strada, il 37% è minorenne, tra i 13 e i 17 anni. Provengono da Nigeria (36%), Romania (22%), Albania (10,5%), Bulgaria (9%), Moldavia (7%), le restanti da Ucraina, Cina e altri paesi dell’Est. I clienti sono 9 milioni, con un giro d’affari di 90 milioni di euro al mese.

La schiavitù in agricoltura
Solo dalla schiavitù in agricoltura, secondo le stime Ilo, si generano 9 miliardi di dollari di proventi annui per gli sfruttatori.

Il settore agricolo, forestale e della pesca impiega globalmente circa 1,3 miliardi di lavoratori, ovvero la metà della forza lavoro del mondo. In questo numero, è stimabile che 3,5 milioni di persone lavorino in condizioni di schiavitù: in molti Paesi infatti il lavoro agricolo è poco regolato e la protezione legale dei lavoratori è molto debole o del tutto assente.

Quindi, dietro al cibo che ci arriva in tavola possono esserci le mani fiaccate di lavoratori stagionali che operano in condizioni fuori da ogni regola, da ogni dignità umana. Amnesty International ha appena diramato un rapporto secondo cui dietro le mega produzioni di olio di palma c’è lavoro minorile, perfino se etichettato come “sostenibile”.

Questo fenomeno non riguarda solo aree disagiate e Paesi poveri. Ciò che accade nello stato del Michigan, il più grande produttore di mirtilli degli Stati Uniti, è che bambini perlopiù immigrati dal Messico vengono sfruttati nei campi per raccogliere i frutti perché hanno mani piccole, più adatte a raccogliere le piccole bacche. Sempre in Usa ha fatto scalpore il documentario Food Chains, diretto da Sanjay Rawal e con la voce narrante di Forest Whitaker, che illustra la situazione dei braccianti agricoli in Florida. I raccoglitori di pomodori vivono una condizione di moderna schiavitù: devono lavorare su turni di dieci ore per una paga che si aggira intorno ai 40 dollari alla settimana. I ritmi veloci dei movimenti del film non sono un effetto speciale, bensì il vero modo di lavorare di queste persone che raccolgono 480 chili di pomodori al giorno e vivono “come animali in baracche anguste”, come dice uno dei lavoratori nel film.

In Italia è scoppiato nel 2010 il caso di Rosarno, in Calabria: migranti impiegati nella raccolta degli agrumi vivevano in acre condizioni di sfruttamento, costretti ad abitare in contesti degradanti, senza alcuna tutela igienica. Amnesty International Italia ha stilato una ricerca, “Lavoro sfruttato due anni dopo”, facendo il punto sulla situazione dei lavoratori migranti impiegati come braccianti e rivelando paghe al di sotto del salario minimo contrattato fra imprese e sindacati, pagamenti ritardati o mancati pagamenti e lunghi orari di lavoro. Andrea Segre ha appena presentato il film-documentario “Il Sangue Verde”: sette voci, sette storie raccontate dai braccianti africani che hanno vissuto gli scontri di Rosarno del 2010, contro lo sfruttamento e la discriminazione.

I bambini soldato
Un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto. Non chiede paghe, si fa indottrinare e controllare più facilmente di un adulto, affronta il pericolo con maggior incoscienza, attraversa campi minati o si intrufola come una spia nei territori nemici.

Così, oggi sono più di 300.000 i minori di 18 anni attualmente impegnati in conflitti nel mondo. Centinaia di migliaia di bambini soldato hanno combattuto nell’ultimo decennio, alcuni negli eserciti governativi, altri nelle armate di opposizione. La maggioranza di questi hanno da 15 a 18 anni ma ci sono reclute anche di 10 anni.

Alcuni sono regolarmente reclutati negli eserciti dei loro Paesi, altri fanno parte di armate irregolari di opposizione ai governi. In entrambi i casi vivono una vita che non è da bambini. Anche le ragazze, sebbene in misura minore, sono reclutate e probabilmente costrette a stupri e a prevaricazioni sessuali. In Etiopia, per esempio, si stima che le donne e le ragazze formino un quarto delle forze d’opposizione armata.

Si dice che alcuni ragazzi aderiscono come volontari. In questo caso le cause possono essere diverse: per lo più c’è di mezzo la fame, il bisogno di protezione, il sostrato della vendetta. Nella Repubblica Democratica del Congo, per esempio, nel ’97 da 4.000 a 5.000 adolescenti aderirono all’invito di arruolarsi fatto attraverso la radio (erano per la maggior parte “ragazzi della strada”). Un altro motivo può essere dato da una certa cultura della violenza o dal desiderio di vendicare atrocità commesse contro i loro parenti o la loro comunità. Una ricerca condotta dall’ufficio dei Quaccheri di Ginevra mostra come la maggioranza dei ragazzi che va volontario nelle truppe di opposizione lo fa come risultato di una esperienza di violenze subite personalmente o viste infliggere ai propri familiari da parte delle truppe governative.

Il problema dei bambini soldato è più grave in Africa (il rapporto presentato nell’aprile scorso a Maputo parla di 120.000 soldati con meno di 18 anni) e in Asia.

Negli ultimi 10 anni è documentata la partecipazione a conflitti armati di bambini dai 10 ai 16 anni in 25 Paesi. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono usati come “portatori” di munizioni, vettovaglie, insomma con ruoli di supporto, anche se la loro vita non è meno dura o a rischio degli altri.

La schiavitù nella storia
Il lavoro forzato era diffuso nelle civiltà più antiche e a ogni latitudine. È emblematica la storia di Spartaco, gladiatore romano di origini tracie che nell’Impero del 73 a.C. guidò una rivolta di schiavi che tenne testa alle legioni per oltre un anno, prima di essere soffocata nel sangue: furono 6mila i ribelli crocifissi sulla strada tra Capua e Roma.

La civiltà cristiana, quella giudaica, greca, romana e persiana praticavano tutte la schiavitù. La schiavitù era consueta nel momento in cui è nato l’Islam e il diritto islamico, proibendo di rendere schiavi dei musulmani, ha favorito una tratta di schiavi non musulmani durata oltre mille anni.

Il cristianesimo, ampiamente diffuso tra gli schiavi dell’impero romano, nei suoi primi tre secoli di vita non ha controllato alcun governo, però non pare che abbia influito più di tanto sull’economia della schiavitù dato che poco è cambiato quando arrivò al potere. La schiavitù è esistita nella parte orientale dell’impero romano, a Bisanzio, fino alla presa dei turchi nel 1452.

La schiavitù era invece scomparsa nell’anno mille nell’occidente cristiano, sostituita però dal sistema feudale in cui le persone più modeste erano ridotte in stato di servitù. E appena è riapparsa una vera e propria domanda di schiavi, con la colonizzazione delle Americhe nel Cinquecento, gli europei hanno cominciato ad acquistare schiavi dall’Africa, come gli imperi islamici di Medio Oriente e India avevano continuato a fare.

Gli schiavisti musulmani catturavano generalmente più donne che uomini, poiché esisteva una maggiore domanda di schiave sessuali donne (concubine o simili) che di schiavi guerrieri uomini, mentre praticamente non esisteva domanda di lavoratori agricoli. Gli schiavisti europei sequestravano due o tre maschi africani per ogni donna, poiché quel che interessava loro era la forza lavoro per l’agricoltura commerciale.

La storia dei prodotti coloniali, zucchero, cacao, caffè, è resa amara dallo stridore delle catene di milioni di esseri umani deportati come schiavi dall’Africa alle Americhe. Tra il XVI e il XIX secolo, gli africani sbarcati oltre Atlantico furono circa 12 milioni. Le cose non andavano meglio in Oriente e nella stessa Africa, furono 17 milioni gli africani resi schiavi nell’Impero Ottomano e circa 14 milioni quelli da parte di altri africani.


Dal XVII secolo si passò alla colonizzazione vera e propria. La base economica del nuovo mondo divenne la piantagione schiavista, soprattutto quella di canna da zucchero: i due terzi degli schiavi deportati dall’Africa alle Americhe finì lì. Lo zucchero di canna veniva già prodotto nel Mediterraneo dagli arabi fin dal medioevo, con impiego di forza lavoro di matrice più o meno schiavistica. Ora le piantagioni vennero stabilite nelle isole dell’Atlantico e poi ai Caraibi. Insieme alla canna da zucchero si diffusero anche caffè e cacao, le piantagioni e la tratta negriera si espandevano man mano che questi nuovi prodotti diventavano di moda nei salotti d’Europa. Le principali nazioni negriere erano Inghilterra, Francia, Spagna, Portogallo, Olanda e Stati Uniti. Il sistema schiavista era la norma anche in Oriente, dove la coltivazione più diffusa era delle spezie. In Indonesia, olandesi e portoghesi si contendevano il controllo del commercio di noce moscata, cannella e chiodi di garofano. Turchi e arabi dominavano l’isola di Zanzibar, specializzata nei chiodi di garofano. Nel mondo musulmano gli schiavi erano impiegati anche nelle oasi del Sahara e del Medio Oriente, per la produzione di datteri e cereali.

L’abolizione della schiavitù occidentale
A fine Settecento prese vita un movimento d’opinione internazionale per la sua abolizione, il cui nucleo originario era tra i fedeli evangelici inglesi e nordamericani. Primo vero movimento politico di massa dell’epoca moderna, gli abolizionisti coinvolsero in modo trasversale la popolazione. Abili nella comunicazione, una loro efficace campagna fu il boicottaggio dello zucchero delle colonie al grido di “lo zucchero si fa col sangue”. La prima vittoria fu l’abolizione della tratta da parte della Gran Bretagna nel 1807. A dire il vero i primi ad abolirla erano stati i danesi nel 1792, ma i britannici decisero di estendere il divieto a tutto il mondo e di farlo rispettare, per cui misero in mare una flotta che dava la caccia ai vascelli negrieri. Gli schiavi liberati venivano portati a Free Town, capitale della Sierra Leone, fondata proprio per accogliere gli ex deportati.

Il cammino verso la libertà è stato pieno di paradossi. Per esempio, gli schiavi neri americani vennero sostituiti prima con forzati cinesi e indiani, poi con immigrati europei poveri, che magari si trovarono a vivere in condizioni ancora peggiori.
A fine Ottocento la schiavitù era ancora diffusa nei regni africani e arabi e persisteva anche nell’Impero Ottomano. Il suo sradicamento fu uno dei pretesti che le potenze europee utilizzarono per avviare la conquista coloniale di Africa e Medio Oriente.
Nell’Ottocento in America gli schiavi cominciarono a ribellarsi. Alcuni Stati settentrionali la proibirono, così molti cercarono di fuggire dove la schiavitù era stata ormai abolita. L’attrito tra gli Stati settentrionali e quelli meridionali innescò la Guerra di secessione americana. Con la vittoria degli Stati dell’Unione, contrari, la schiavitù venne abolita in tutti gli Stati Uniti d’America, con la Dichiarazione di emancipazione che venne pronunciata dal presidente Abraham Lincoln l’1 gennaio 1863. Il tredicesimo emendamento della Costituzione americana è entrato in vigore il 18 dicembre 1865. (Un anno dopo, sarà fondato il Ku-Klux Klan).

“Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”. Sono le parole contenute nel quarto articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani, il documento sui diritti individuali che per la prima volta si rivolse a tutte le persone del mondo, firmato a Parigi il 10 dicembre 1948, la cui stesura avvenne sotto l’egida dalle Nazioni Unite. Esempi di cronaca continuano a dimostrarci che queste parole vengono ignorate quotidianamente in quasi tutto il mondo. E non sempre vogliamo saperlo.

Stefano Carnazzi, 1/12/2016
www.lifegate.it

17 marzo 2017

LA DURA VITA DELLE PITTRICI IN CONGO

Sono migliaia le donne che esercitano un mestiere artistico in Africa. Una passione, ma con il suo tributo di difficoltà.
Rhode Bath-Schéba Makoumbou, Congo

Per Francesca, sta per arrivare il gran giorno.
In occasione del mese della donna, lei, insieme ad altre pittrici, esporranno i loro quadri in una galleria del centro di Pointe-Noire in Congo. Un evento impazientemente atteso dalle giovani donne.

E, siccome è la sua prima volta, gli ultimi consigli le vengono prodigati da Ledy, un'altra pittrice che vanta maggiore esperienza nel campo. "Questa esposizione consentirà non soltanto di far vivere le artiste figurative, ma anche di promuovere il loro talento, sia a livello nazionale che internazionale" spiega Ledy.

In tempi normali, Francesca e le altre pittrici lavorano, ed espongono i loro quadri, in un campo abbandonato. Un mestiere appassionante ma difficile.
"In quanto donne, siamo molto sminuite. Non ci danno molta importanza, si pensa che non possiamo fare più degli uomini" deplora Francesca.
Village Makwacha, Katanga, Congo

E per questa madre nubile non è facile organizzarsi con un bimbo piccolo. "Me la cavo, poiché in casa ci sono solo io, siamo solo noi due".

Ma Francesca non è sola. Qui, può condividere la sua esperienza con altre pittrici, sotto lo sguardo benevolo degli artisti maschi. Florence è pittrice e scultrice, e ricorda quanto sia importante, per le donne artiste, essere unite. 
"Se vogliamo andare avanti, noi donne, con l'arte, dobbiamo lavorare soprattutto in associazione. Non solo gli uomini possono fare questo mestiere, anche le donne possono. Quando si parla di sviluppo di una nazione, ciò non riguarda solamente gli uomini ma anche le donne. Quindi ciò che stiamo facendo, lo facciamo per vendere, per poter mantenerci da sole. Perché anche noi vogliamo contribuire al bilancio familiare".

Modupeola Fadugba - Togo
Come Francesca, Ledy o Florence, sono migliaia le donne artiste attraverso l'Africa.
Migliaia ad essere doppiamente penalizzate : essere artista in un settore dominato dagli uomini e muoversi in società in cui il mestiere di artista è svalutato.

Ma non importa. Ogni giorno, è tutte insieme che cercano di imporsi e far sì che le mentalità si evolvano... e non solo l'8 marzo.

Barbara Loundou, 8 marzo 2017
fr.africanews.com

Tradotto dal Francese da Marinella Secci

11 marzo 2017

I RACCONTI DELL'AFRICA NERA


Offrono l'immagine d'un mondo alle prese con le forze della natura, con le belve della foresta, con gli spiriti vaganti e con il potere delle streghe onnipresenti.
Nell'Africa Nera lo scopo principale cui mira il narratore è l’insegnare. La favola è una lezione per immagini. Le popolazioni africane si servono di oggetti visibili, di fatti concreti, di azioni che coinvolgono i presenti, come le danze e i canti. Così il messaggio s'imprime nella memoria e influenza la loro vita.
Dovendo insegnare qualche cosa per la vita, le favole africane hanno per protagonista sempre l'uomo, anche quando sono di scena gli animali. Questi non sono che la controfigura dell’uomo, ne riflettono le virtù e i difetti, le tribolazioni, i fallimenti e i successi. Alcuni, impersonando con speciale rilievo un difetto o una virtù, sono divenuti simbolo d'un tipo particolare d'uomo. La lepre e la rana rappresentano, in Africa, l'uomo saggio e coraggioso, il leopardo e il leone sono simbolo dell'oppressore prepotente e ottuso. Allora raccontare le avventure della lepre, del leone o del leopardo, dello scoiattolo o delle formiche, è insegnare la prudenza, il coraggio, l'amore o condannare la prepotenza, l’infedeltà, l'ambizione.
Le favole trasmettono così una concezione della vita e forniscono norme per la condotta personale e per la convivenza nella società. Si capisce quindi perché siano strumenti di formazione per le nuove generazioni e ammonimento per tutti.

ll MATRIMONIO DEL TOPO 

C'era una volta un bellissimo topolino bianco. E diventava sempre più bello mentre cresceva e diventava adulto. I suoi genitori si chiedevano spesso: Dove troveremo una moglie degna per lui? Quando arrivò il momento di cercare una moglie decisero che solo nella famiglia di Dio poteva esserci una ragazza giusta per lui. Così, come era d'uso, tre vecchi componenti della famiglia andarono da Dio a chiedergli una moglie per il bel topolino. 

Giunti alla casa di Dio, i tre entrarono e dissero: Veniamo per conto del bellissimo topolino bianco, a cercare una moglie degna di lui: solo tu puoi trovarcela! 
Dio allora disse : Grazie di essere venuti, ma siete nel posto sbagliato: dovete andare a casa del vento! Il vento è più forte di me, perché mi soffia la polvere negli occhi!
A quel punto i tre messaggeri decisero di andare a casa del Vento. 
Ma giunti là, il Vento disse loro: Vi ringrazio, ma la Montagna è più forte di me: io non riesco a scalfirla, malgrado soffi con tutta la mia forza! 
A quel punto lì i tre topi andarono dalla Montagna, che però disse loro: Grazie di essere venuti, ma c'è una creatura più potente, che mi sbriciola dalle fondamenta: abita là, andate a trovarla! 
I tre andarono nella casa che gli era stata indicata e videro che era la casa di un Topo. Il capofamiglia disse loro: Avete trovato la moglie per il vostro bellissimo topolino bianco!. Che gioia! 
E così il bellissimo topolino bianco trovò una moglie degna di lui. 

www.circolodonbosco.bz.it

07 marzo 2017

GLI HIMBA - NAMIBIA

Bisogna spingersi su a Nord, nella spettacolare e isolata regione del Kaokoland, per poter incontrare gli Himba, magnifica popolazione nomade che vive in comunità isolate nelle valli remote. Gli Himba si spostano seguendo la scarsa pioggia, alla ricerca di foraggio per il loro bestiame:più precisamente, questo

compito è demandato agli uomini, mentre alle donne è affidata la cura del villaggio. Ogni insediamento Himba (onganda) è composto da più capanne (ondjuwo) edificate con rami e rivestite di terra impastata e lisciata con orina
animale, disposte attorno ad un kraal centrale. Le tribù sono organizzate in clan con linea gerarchica femminile (omaanda), ed a capo di ogni onganda c'è una matriarca. La struttura sociale è estremamente complessa: ogni bambino Himba appartiene sia ad un clan patrilineare (oruzu) che ad uno matrilineare (eanda):


ogni clan discende da un antenato comune, il cui mito è all'origine del clan
stesso, ed ha i propri tabù, che riguardano il divieto di mangiare la carne di un determinato animale o la proibizione per le donne mestruate di

mungere le vacche. Grande importanza nella cultura Himba riveste la cura dei capelli e l'acconciatura. I giovani maschi portano i capelli rasati con un solo ciuffo in mezzo alla testa: il ciuffo viene lasciato crescere con l'età e viene pettinato all'indietro in un'unica treccia (ondatu): raggiunta l'età del matrimonio (a circa 25 anni), i capelli vengono divisi in due trecce (ozondatu).
Quando poi il giovane si sposa deve sempre nascondere i capelli con un berretto (ozondumbu) che si può togliere solo quando dorme ed in caso di lutto. Le giovani, invece, si fanno crescere i capelli che pettinano in due trecce rivolte in avanti, finché,
con la pubertà, possono sciogliere i capelli in tante trecce: da questo momento, possono avere rapporti sessuali. I capelli ed il corpo delle donne vengono spalmati di grasso e di ocra ed altre erbe aromatiche. Le acconciature delle donne sono molto particolari e indicano lo stato sociale: come detto, le due trecce sono riservate alle giovani, mentre le trecce cosparse di grasso ed ocra sono delle donne mature: la donna sposata aggiunge in testa un ciuffo di pelle di antilope (omarembe) che rivolta quando è vedova, e porta una conchiglia (ozohumba) fra i seni, proveniente dai mari dell'Angola e considerato un simbolo di fertilità. In particolare, questa straordinaria collana a doppio contrappeso dorsale (non ha equivalenti nel continente africano) attira lo sguardo del visitatore e può essere considerata l'icona del popolo Himba e, per estensione, della Namibia.



02 marzo 2017

L’UOMO DELL​’​ETIOPIA ... ovvero del tioetere di cloroetano e del settimo sigillo

Durante la guerra d’Etiopia, l’aviazione italiana bombardò più volte, intenzionalmente, ospedali della Croce Rossa. Li bombardò anche con armi chimiche. È una storia da recuperare, sotto gli strati di decenni di negazionismo e amnesia collettiva.
Uno di questi bombardamenti lo hanno raccontato i :Kai Zen:Bhutan Clan.  Il testo è tratto da una storia vera:

Jadel Andreetto
(: Kai Zen : )
Non abbiate mai paura della vita e
dell’avventura. Abbiate fiducia nel caso,
nella fortuna e nel destino. Partite, andate
a conquistare altri spazi, altre speranze.
(Henry de Monfreid)

“Le stelle sono dieci volte più numerose di tutti i granelli di sabbia della terra. Di tutte le spiagge, di tutti i deserti.”
Così ha detto il paraguaiano a Gunnar Lundström e Gunnar Lundström si è guardato attorno.
In quel momento, a Malca Dida, stenta a crederci.
È il 1935. L’anno è appena iniziato, Amelia Earhart ha compiuto il primo volo in solitaria tra le Hawaii e la California, il cielo sopra Stoccolma è acciaio liquido, il caffè davanti alla facoltà dimedicina è pieno di gente. Sono lì per lui. Festeggiano. Elfriede lo abbraccia. Gunnar è un dottore adesso. Il futuro è radioso, eppure non riesce a staccare lo sguardo dall’Aftonbladet. Sulla notizia della trasvolata campeggia una foto della Earhart. È appena atterrata a Oakland. I capelli scarmigliati e il sorriso stanco, ma sbarazzino.
Il paraguaiano lo incontra in un villaggio dell’Ogaden, a sud del confine con la Somalia Britannica. L’ambulanza si ferma per riempire le taniche d’acqua. Il vento sa di sterco e spezie. Gunnar ne approfitta per sgranchirsi le gambe. Hylander e Agge ci sono già stati. Sanno  che c’è un pozzo, che qualcuno offrirà loro un tè e informazioni sul percorso in cambio della protezione di San Giorgio, quello effigiato sulle sterline, si intende. All’ombra di una palma solitaria un capannello di pastori è intento a osservare un arbegnuoc alle prese con una scacchiera e con il primo tenente della marina paraguaiana Benito Ecer de Namtar.
Gunnar Lundström conosce Hylander nei corridoi dell’ospedale. È il figlio di un missionario ed è appena tornato dall’Etiopia. Laggiù il suo amico d’infanzia Agge fa il medico nell’Ogaden dove l’imperatore ha spostato novemila soldati, dopo le provocazioni italiane. L’autunno sta per cominciare e Gunnar Lundström è inquieto. L’Europa si contorce come un’anguilla elettrica in un vaso troppo piccolo mentre la Svezia sonnecchia. Violando il trattato di Versailles, la Germania arruola soldati e toglie la cittadinanza agli ebrei. Italia, Francia e Gran Bretagna dichiarano di voler mantenere la pace, ma intanto l’Etiopia chiede alla società delle nazioni di inviare degli osservatori. Teme un’invasione. Gunnar tiene nel portafoglio la foto della Earhart strappata dal giornale. Elfriede è sfacciatamente gelosa.


Il giorno in cui le truppe italiane di stanza in Eritrea varcano il confine etiope, comincia la guerra: è il 15 settembre.
Dodici giorni dopo, il 27 settembre, un’ambulanza con a bordo Hylander e Lundström parte da Stoccolma. È diretta nell’Ogaden da Agge, e da lì all’ospedale da campo della croce rossa internazionale a Malca Dida.
Il paraguaiano, sdraiato nel retro dell’ambulanza, ha occhi pallidi e liquidi come ostriche. Anche lui è diretto all’ospedale da campo, come osservatore della Lega delle Nazioni. Pendolare della guerra, appena finita quella del Chaco si è ritrovato nell’Ogaden, gran maestro di scacchi, temprato alle asperità dell’orrore, ha già visto l’iprite in azione.
Ha sentito l’odore di mostarda, ha visto l’aria diventare gialla. In Africa ha osservato, quello è il suo lavoro, la cecità da cheratite, le trachee occluse, i polmoni corrosi, la pelle ulcerata e la carne dilaniata. L’Italia ha 85 tonnellate di iprite da scaricare sull’Etiopia. I bombardieri Romeo, come bestie in gabbia, rombano negli hangar.
Il paraguaiano ha osservato chi resiste, costretto alla codardia della guerriglia contro un nemico infame. Ha osservato gli alpini, i fanti e le camice nere d’Africa al lavoro; con le corde e le accette, con le sciabole e i fucili. Ha visto soldati, guerriglieri, ma anche donne, vecchi e bambini. A centinaia, a migliaia. Come a Cufra nel 1931. Saccheggi. Deportazioni. Torture. Stupri. Evirazioni. Dissanguamenti. Impiccagioni. Ventri squartati. Bambini bolliti. Panoplie di feti, teste e coglioni mozzati: orifiamma della civiltà.
Gunnar Lundström è sfinito, sono mesi che viaggia attraverso due continenti, ma ripensa al sorriso sbarazzino della Earhart, alla sua impresa. Ognuno, in fondo, ha la sua da compiere.
Agge di solito è loquace, ma nell’ultimo infinito tratto di strada si è limitato a poche parole sulla fede: confortante come il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte…
Vorrebbe avere la certezza di Agge. Sapere che qualcosa, dopo, c’è. Chissà se anche il paraguaiano vuole sapere… Scaccia quel pensiero come fosse un chiodo con un chiodo più lieve e si chiede perché mai il Paraguay abbia la marina…
Durante una sosta, Benito Ecer de Namtar, tira fuori la scacchiera. Mancano sei giorni a Natale.
A Lundström toccano i bianchi. Quando ripartono, la partita resta aperta.
Si dice che tra le sabbie del deserto oltre Malca Dida si celi la porta di Al Jannh al Adn, il giardino dell’Eden. Quando Gunnar Lundström mette piede sulla terra rossa davanti all’ospedale da campo, viene investito dall’odore ferrigno del sangue. Se l’Eden è da quelle parti, allora Caino ha appena scannato Abele poco lontano dai suoi cancelli. Il cielo d’acciaio liquido di Stoccolma, Elfriede, la laurea, la carriera, la traversata, il sorriso dell’aviatrice sono solo vaghi ricordi. Qualcuno urla qualcosa in una lingua aspra come il miele. Agge corre, corre come Gunnar non l’ha mai visto correre. Il paraguaiano fa un cenno in direzione della tenda. È ora che il ragazzo assetato di avventura diventi un uomo ebbro di indifferenza.
Quando Gunnar Lundström finisce, sono passate tredici ore. Vorrebbe solo dormire, ma non può.
Benito Ecer de Namtar sorseggia un tè. La scacchiera è pronta. La bandiera svedese sventola accanto a quella della croce rossa.
È Natale, ha lavorato molto, riposato poco, mangiato la solita sbobba e continuato la partita con il paraguaiano. Avanzano di casella in casella, con lentezza. La loro è una battaglia inesorabile come quelle nel resto d’Etiopia. La guerriglia è spietata, gli invasori sono spietati. Gli uomini, tutti gli uomini, hanno il volto di un tebib, un demone, che nessuno riesce a esorcizzare e all’ospedale ne arrivano a decine, a centinaia.
Gunnar Lundström fa tutto quello che può, ma non basta. All’ennesima amputazione, all’ennesima vita che gli si spegne tra le braccia, non prova più nulla. Solo indifferenza. Si sente sprofondare nelle tenebre. Mentre sacrifica l’alfiere, lo dice. Gli viene da piangere.
Il paraguaiano sposta il cavallo. Le sue parole sono una litania: “in queste tenebre in cui affermi di essere, dove noi presumibilmente siamo... in queste tenebre non troverai nessuno che ascolti le tue grida o si commuova della tua sofferenza. Asciuga le lacrime e specchiati nella tua stessa indifferenza Gunnar Lundström…"
Le giornate si susseguono identiche. Chi non conosce la guerra non conosce il tedio dell’orrore, la noia mortale delle imprese eroiche. Benito Ecer de Namtar fa la sua ultima mossa. Scacco matto. Il nero vince. Amelia Earhart è un’immagine accartocciata che rotola al vento del deserto.
Gunnar Lundström non fa in tempo a godersi la sconfitta. Un bambino è grave. Un proiettile lo ha colpito al ventre e Gunnar Lundström si precipita verso la tenda.
In quella corsa c’è tutto il peso dell’indifferenza. Aumenta la falcata, in quell’ultimo balzo c’è tutto il peso del fare la differenza.
È il 30 dicembre 1935. Il cielo è il ronzio di migliaia di calabroni. L’eroica regia aeronautica italiana scarica 107 bombe all’iprite sull’ospedale della croce rossa.
Gunnar Lundström muore due giorni dopo. Il corpo scarnificato. L’ultima cosa che vede è il sorriso triste di Benito Ecer de Namtar. Le ultime parole che sente rispondono alla domanda che non ha mai pronunciato sull’ambulanza: “non mi serve sapere".


www.wumingfoundation.com