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27 ottobre 2018

LEZIONE DI STORIA... dalla Pagina Facebook di Paolo Longarini


Ve lo dico subito, è lungo.
Altrettanto subito, chissene frega.
Scusate la franchezza, ma in un momento in cui il ministro dell'orrore si esprime e vomita odio con i contati caratteri di un tweet, io ho la necessità di raccontare, con tutto lo spazio necessario, il suo fallimento.
Sparare è un attimo, un secondo, quello necessario per l'esplosione ed è tutto finito. Il danno, sicuramente maggiore ed evidente, fatto con l'immediatezza della brutalità. No, io voglio parlare, ho bisogno di immagini come il pugno chiuso di Pertini, il sorriso di Rosa Parks, il viso sereno di Peter Norman mentre cambia la storia, ho bisogno di sentire fino in fondo il racconto del sogno di Martin Luther King, quello di Nonno Titta mentre cucinava il cane del comandante tedesco, le voci metalliche degli ufficiali nazisti secondo Liliana Segre.
Serve tempo per la memoria.
Servono persone.

Come Gregorio Cortez, nome di fantasia, professore di Geostoria nel liceo linguistico frequentato da Irene, la mia figlia più piccola. Non ho la possibilità di chiedergli il permesso per raccontare questa vicenda, preferisco quindi, almeno per il momento, rispettare la sua privacy. Magari in seguito.

Chiamata mentre sono a lavoro.
Irene Cell.
Ovviamente mi preoccupo, rispondo senza badare alle persone davanti a me.
"Tesoro, che succede?"
"Nulla, ma devo raccontarti una storia. Quello che oggi è successo in classe".
E inizia.
Parla lei.

Ero seduta al banco e aspettavo, come tutti gli altri. Le solite chiacchiere, chi parla di ragazzi, chi di musica sempre più assurda, chi dei problemi con i propri genitori, quando ecco che entra il professore. Aveva una faccia diversa dal solito, non riuscivo a capire perché, sembrava felice e preoccupato insieme, nervoso ma deciso. Si siede alla cattedra, strano anche questo, visto che preferisce fare lezione in piedi.
"Ragazzi, devo leggervi una circolare, fate silenzio"
Non è stata certo la frase, ne ha lette tante altre da quando è iniziato l'anno, ma stavolta tutti hanno capito che c'era qualcosa di diverso. E avevamo ragione. 
Si sistema gli occhiali, schiarisce la voce.
"Con effetto immediato, da oggi, 16 ottobre 2018, in tutte le scuole italiane..."
E si ferma.
Lo vediamo nervoso, si passa più volte la mano tra i capelli e sul viso, non capiamo e vogliamo saperne di più: salta il campo scuola? Si è allagata la palestra? Che diamine succede, parli!
Lui invece si alza, si poggia contro la scrivania nella sua consueta posizione, butta ancora l'occhio sul foglio da cui stava leggendo e lo posa.
Prende aria, e finalmente parla.
"Tutti quelli che hanno i genitori stranieri, o anche un solo genitore straniero, alzino la mano".
Ci guardiamo in faccia, le teste si girano velocemente nel cercare impossibili risposte nei visi dei compagni, chiaramente, nessuno sa e nessuno può sapere.
"Alzate le mani!" stavolta alza la voce, questo serve allo scopo.
14 braccia alzate.
Su 26 persone che compongono la prima E.
Mi giro e vedo le mani alzate di Margherita, africana, e Lu, cinese: si guardano intorno senza capire, spaventate ancora no ma certamente intimorite. Nella sorpresa generale c'è in alto anche la mano di Ludovica.
"Mamma è moldava..."
In classe ci sono solo quattro ragazzi. Uno di loro alza la mano e Sandro, vicino di banco con cui ha una bromance meravigliosa, trattiene il respiro.
"Polonia, la mia famiglia viene da lì, sono tanti anni ormai che siamo qui in Italia, io sono nato al San Filippo Neri..."
Quando tutte le mani sono alzate, il professore torna a parlare.
"Raccogliete le vostre cose, fate gli zaini e andate al terzo piano, lì troverete la vostra nuova classe, dove resterete per tutta la durata del liceo"
Immediatamente ci sono state due reazioni: lacrime e rabbia. La situazione non era chiara ma è come se vedi qualcuno a terra e cinque persone che lo prendono a calci, ti fai un'idea di chi abbia ragione e chi no. Quindi chiediamo spiegazioni, subito, vogliamo capire, dobbiamo capire cosa diamine sta succedendo, la rabbia aumenta per le lacrime dei nostri compagni, sia di chi deve andare via, sia di chi non vuole che l'altro o l'altra se ne vada.
"Silenzio! Fate silenzio! È fatto obbligo per chi non ha alzato la mano di non interferire e ASSOLUTAMENTE - e qui ha alzato la voce, ho sentito il maiuscolo - non devono più esserci contatti di nessun tipo tra voi e LORO, da ora e per tutti i prossimi anni scolastici. Così è stato deciso, avanti, sbrigatevi"

Apriti cielo.
La classe si divide tra chi abbraccia e chi resta impietrito, il professore non dice nulla.
Io mi alzo e vedo tanti altri che lo fanno, abbiamo la faccia da guerra e, cazzo, tutta l'intenzione di usarla. 
Facciamo un passo verso di lui, quando il professore alza le mani, sorride e invita alla calma.
"Calma ragazzi, calma"
La voce è totalmente diversa, il colpo non è passato e tanti ancora piangono ma nella sua voce c'è qualcosa, qualcosa che ci calma.
"Sapete che giorno è oggi?"
Ci guardiamo attorno, nessuno vuole essere il primo a rispondere banalmente "martedì".
"Settantacinque anni fa, qui a Roma, c'è stato il rastrellamento del ghetto. Voi avete provato solo una minima parte di quello che sentirono centinaia di persone, molte di queste non furono solo trasferite in un altro piano, ma portate nei campi di concentramento e uccise barbaramente"
La tensione si allenta, alcuni compagni cadono letteralmente sulla sedia, gli abbracci sono più forti, Mario e Claudio ridono, piangono, si abbracciano, sputano a terra e ruttano, tutto il repertorio maschile, insomma.
"Ecco, voi avete reagito consolando i vostri compagni, chiedendo spiegazioni, stavate venendo qui da me belli carichi. Beh, tutto questo è bellissimo. E siete solo una prima. Ho fatto lo stesso in una quinta poco fa, e lì li ho fatti arrivare fino alla porta prima di fermarli. Due ragazzi hanno alzato la mano anche se prima non lo avevano fatto, mentendo sulla nazionalità dei genitori, la sorella di Franca - indica una ragazza che sta sempre sulle sue e parla pochissimo - mi è letteralmente saltata addosso e ha voluto leggere per filo e per segno la circolare, strappandola. Giorgio, un ragazzo della Sierra Leone stava preparando lo zaino quando si è alzata la sua ragazza e gli ha detto che se andava via lui sarebbe andata via anche lei. Tutti urlavano e i ragazzi rimasti indifferenti erano una risibile minoranza. Sapete cosa significa questo?"
"Che prima o poi se becca du' pizze, professò?", Lucia, come al solito, risponde da par suo.
"No. Che siete migliori di come vi raccontano. Che possono avere il consenso delle vecchie generazioni ma non il vostro. Non sapevate che giorno fosse oggi ma ne avevate comunque dentro di voi il significato, avete sentito l'ingiustizia nonostante tutto intorno a voi gridi di allontanare chi è straniero, chi è diverso secondo parametri tutti da stabilire, che l'integrazione è sbagliata. Nessuno di voi ha visto uno straniero: avete visto un amico o un compagno, e questo è bellissimo"
"Significa che c'è speranza, professore"
"Esatto, Mauro"
"Significa che se la pijano n'der culo e che nessuno ce deve da rompe er cazzo, professò, semo come er cavaliere nero!" 
"Lucia, anche meno"

La lezione è continuata sulle leggi razziali e raccontando l'olocausto, i campi, evocando nomi duri come Auschwitz.

Ecco, io vorrei ringraziare il professore di Geostoria di mia figlia. Vorrei ringraziarlo per essere così nonostante le migliaia di difficoltà che incontra, lui e tutti i suoi colleghi, nell'insegnare, nel formare, nel far crescere i nostri ragazzi nonostante tutti i paletti e le difficoltà messi da chi considera i professori un peso, da chi dice che fanno tre mesi di vacanza e lavorano mezza giornata. 
Lo ringrazio per il suo non arrendersi ed essere riuscito a far sentire la bellezza dell'amore, dell'unità.

Questa è la scuola che voglio per mia figlia.
Non mense separate, nessun noi contro loro.

Prof. Al primo consiglio di classe sarò quello con la maglietta "sei il mio eroe".
Grazie. Davvero.

Ora e sempre, resistenza.

26 ottobre 2018

SUDAN, TRA LA GUERRA DEI BAMBINI

Nel mondo sono stimati in 250 mila i ragazzi sotto i 18 anni utilizzati nei conflitti. In Sud Sudan nel 2015 a migliaia hanno consegnato uniformi e armi, dopo aver sparato e ucciso per l’esercito di liberazione. Tanti di loro, orfani e senza parenti, oggi studiano e lavorano, ma rischiano di tornare a combattere per disperazione

— Pibor, Sud Sudan —

L’acqua dei fiumi di Pibor cresce di ora in ora. Con ai piedi un paio di stivali di gomma, Babacho Mama continua a resistere nella sua capanna allagata. Mama ha combattuto come bambino soldato nella milizia Cobra. Sta facendo un ultimo tentativo di tenere aperta la sua piccola impresa di lavanderia che qualche volta gli consente di guadagnare abbastanza da permettersi un pasto al giorno. Nel 2015, durante il cessate il fuoco nel Sud Sudan, Mama e molti suoi commilitoni hanno consegnato le uniformi logore e lerce e le armi alle Nazioni Unite.


Si sono fatti grandi festeggiamenti per celebrare una delle più imponenti operazioni di liberazione di bambini soldato dalle mani delle forze militari africane.
«Fino a poco tempo fa, la gente dei villaggi vicini mi portava tutti i giorni la biancheria sporca, che andavo a lavare nel fiume», dice Mama. «Guadagnavo e avevo comunque il tempo per andare a scuola dall’altra parte del fiume. Adesso, con l’inondazione, ho dovuto smettere perché il bucato non si asciuga più».
Mama ha perso i genitori, tutti i suoi parenti e molti membri della sua tribù nel corso di una campagna di pulizia etnica. Il padre è stato ucciso da un proiettile, la madre è stata sgozzata. Hanno stuprato donne, ucciso persone. Mama, allora bambino, è rimasto senza nessuno a proteggerlo. «Avevo dodici anni…» – deve fermarsi a riflettere un momento perché come gran parte degli altri bambini soldato non sa quale sia la sua vera età – «… è stato allora che sono entrato nella milizia: mi hanno insegnato a usare le armi, ho imparato a memoria tutte le canzoni di guerra. Poi sono diventato uno di loro, un soldato». A differenza di molti dei suoi compagni di sventura, non è stato rapito né reclutato con la forza. Ha fatto la sua scelta per disperazione.
All’inizio, il suo compito consisteva solo nel portare le armi ai membri della milizia di rango più elevato, usate principalmente, così dice, per proteggere l’ex capo della milizia David Yau Yau, ora viceministro del Servizio pubblico e lo Sviluppo delle risorse umane. È stato Yau Yau a promuoverlo luogotenente, dandogli il distintivo di servizio verde decorato con la stella d’oro e l’acronimo «SPLA» (Sudan People’s Liberation Army, esercito popolare di liberazione del Sudan). Aveva dodici anni, quando ha puntato per la prima volta un’arma contro qualcuno – e ha sparato.
Quattro anni, ecco quanto è rimasto nella milizia Cobra. Poi si è stancato di combattere. Traumatizzato, ferito nel corpo e nell’anima da quanto gli era stato fatto, da quello che aveva visto e dalle cose che egli stesso aveva inflitto agli altri. «All’inizio quasi non riuscivo a dormire. Continuavo a svegliarmi, tremando, mi sembrava di sentire l’odore della morte, continuavo a vedere i miei amici morire». Quando gli chiediamo se per lui fosse difficile sparare e uccidere risponde pensieroso e a voce bassa, con gli occhi inchiodati al pavimento: «Se non spari, sei il primo a morire. Ho dovuto farlo».

— La realtà —

Dopo decenni di guerra civile, nel 2011 il Sud Sudan è riuscito a ottenere l’indipendenza dal Nord arabo. La gente ha esultato. Ma il sogno è durato poco.
Nel dicembre del 2013, nonostante in passato avessero combattuto fianco a fianco per l’indipendenza, si è aperta una disputa tra il nuovo presidente, Salva Kiir, e il suo ex vicepresidente, Riek Machar. Salva Kiir viene dalla tribù dei Dinka, e Machar è un Nuer, i due gruppi etnici più grandi del Sud Sudan. Nel Paese nuovissimo e unito, sotto la guida del presidente Kiir, i Dinka erano al potere. Il grande sogno del Paese si è sgretolato insieme allo smantellamento dell’esercito i cui soldati per mesi hanno aspettato un salario e infine hanno deciso di guadagnarsi da vivere saccheggiando villaggi, accampamenti e convogli di aiuti umanitari.
In molte parti del Paese, i diversi gruppi etnici hanno iniziato a darsi la caccia tra loro.
Con 2,3 milioni di profughi previsti per quest’anno, il Sud Sudan è attualmente la sede della più vasta crisi dei rifugiati in Africa, al terzo posto nella classifica mondiale subito dopo la Siria e l’Afghanistan. Nove su dieci rifugiati provenienti dal Sud Sudan che finiscono nei campi di accoglienza degli stati vicini sono donne e minori. E raccontano storie orribili di violenza.


— Una vita senza armi —

Si stima che, nel mondo, circa 250 mila ragazzi sotto i 18 anni vengano usati nelle guerre. Costano meno, si lamentano meno e sono più facilmente manipolabili dei soldati adulti. Come se fossero state fatte a misura di bambino, le armi leggere e quelle di piccole dimensioni sono uno degli articoli maggiormente esportati da chi commercia armi.
Nel 2002 è stato adottato il Protocollo opzionale alla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia riguardante il coinvolgimento di bambini nel conflitto armato. Eppure, secondo quanto riferiscono le Nazioni Unite, dal 2013 circa 17 mila minori sono stati reclutati nel Sud Sudan.
Nel 2015 c’è stata una delle più grandi operazioni di liberazione di bambini soldato, iniziata con una cerimonia solenne. Ma l’ottimismo iniziale è durato poco: appena un anno dopo, il numero di reclutamenti è tornato ad aumentare.
«Consegni uniforme e armi al campo di rifugiati, ti danno una tessera di registrazione che dice che non sei più un membro della milizia, ti danno abiti civili e ti fanno una visita medica. Poi ti dicono che stanno cercando i tuoi genitori e che ti troveranno una scuola così impari a leggere e scrivere. Ti fanno parlare con gli assistenti sociali dell’esperienza nella milizia». Avendo perso i genitori, fa parte dei «bambini perduti». Insieme ad alcune Ong, l’Unicef supporta la creazione di piccole imprese lavorative e così facendo dà ai ragazzi come Mama un’opportunità per avere di che vivere. All’epoca della sua liberazione, la succursale tedesca dell’organizzazione Veterinari senza frontiere ha regalato due capre a ogni bambino come capitale di avviamento per una nuova vita.
Ma attacchi e saccheggi ripetuti hanno fatto fallire gran parte dei progetti di start-up. Anche la maggior parte delle capre sono state rubate.

— Come ogni giorno —

La liberazione dei bambini dalle mani delle milizie e il loro conseguente disarmo all’inizio sono stati un successo. I bambini hanno consegnato le armi, ma poi molti di loro le hanno riprese in mano per difendersi quando ha iniziato a farsi strada un’altra minaccia: i conflitti etnici e tra tribù.
«Voglio davvero smettere di combattere. Voglio continuare ad andare a scuola, a imparare, a lavorare e a costruirmi una vita normale, ma come faccio a farlo?». Sono parole che Mama dice sottovoce, sempre tormentato da quello che prova, mentre va a scuola con indosso una camicia appena stirata e dei sandali puliti ai piedi. Sottobraccio porta una vecchia borsa di plastica dell’Unicef con dentro libri e quaderni.
Lungo il tragitto che fa quotidianamente per arrivare a scuola, si imbatte in centinaia di adolescenti e giovani uomini armati di grossi bastoni e scudi di legno. Gridano e fanno danze di guerra mentre marciano verso l’Albero della Saggezza. È quello che anche molte generazioni prima di loro erano solite fare quando avevano problemi. Appartengono a una milizia della tribù dei Murle e vogliono negoziare con gli amministratori locali. Se non si raggiungerà un accordo, allora scoppierà la guerra e i bastoni saranno sostituiti dalle armi pesanti. Mama riconosce alcuni dei suoi ex commilitoni, ma continua a camminare.
Una volta arrivato alla scuola elementare maschile di Pibor, si siede insieme ad altri bambini sulle vecchie panche graffiate e scarabocchiate della quarta elementare. La scuola non prevede il pranzo, se lo offrisse, sarebbe un incentivo per portare a scuola altri bambini. Quelli che frequentano si addormentano spesso per la fame. Non stupisce sentire dall’Unicef che più del 70 per cento dei bambini nel Sud Sudan non finiscono le elementari.
Mama e i suoi compagni di scuola aspettano il loro insegnante e nel frattempo guardano la lavagna. Sopra c’è una frase: «Gesù gli ha detto, non avere paura, perché da adesso in avanti non pescherai pesci ma uomini…!». Mama tira fuori il quaderno e inizia a leggere gli appunti che ha preso alla lezione precedente. Cerca di orientarsi con l’inglese, ma non è facile per un ragazzino che ha imparato solo da poco l’alfabeto. Ed ecco che arriva Adam, il suo insegnante di inglese. Ha un’ora di ritardo, gli capita spesso, perché come tutti gli insegnanti non viene pagato da mesi e così deve guadagnarsi da vivere facendo altri lavori. Eppure continua a insegnare.
Asciugandosi il sudore dalla fronte Adam interroga sui verbi inglesi. Guarda Mama che, scoraggiato, cerca disperatamente le risposte nei quaderni sporchi e pieni di orecchie. Dopo poco meno di un’ora, Adam guarda l’orologio, dichiara che oggi la lezione è terminata e dice che continuerà domani. Un normale giorno di scuola a Pibor.
Tornando a casa nel caldo opprimente di mezzogiorno, Mama deve passare di nuovo davanti alle giovani milizie che continuano a urlare e radunarsi intorno all’Albero della Saggezza. Raggiunto il fiume, si unisce ai molti passeggeri che aspettano le piccole barche che fanno da traghetti, perché il nuovo ponte, costruito di recente con finanziamenti europei, è allagato e non è più percorribile. Per pochi centesimi, bambini intraprendenti trasportano i loro passeggeri fino all’altra riva del fiume. Invece dei remi, che non ci sono, usano le pale rimaste dalla costruzione del ponte.
Mentre l’acqua continua ad allagare la sua piccola capanna, Mama piega velocemente le camicie che ha appena stirato. Stasera non c’è niente da mangiare. Non c’è un altro lavoro che può fare? Accanto alla pila di biancheria in attesa di essere lavata, c’è il suo vecchio distintivo di servizio.
Da giorni ormai, un pensiero tormenta il timido e introverso Mama: niente lavoro, niente soldi, niente futuro, niente cibo. Forse è il caso di riprendere in mano le armi.

Peter Bauza
[traduzione di Tiziana Lo Porto]

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